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No. Cremona non è una città sicura. Non è più possibile asserirlo senza timore di smentita. Ed è inutile continuare a ignorare l’elefante nella stanza. Si potrebbe semmai argomentare sul concetto di sicurezza. Addentrarsi in digressioni semantiche, concettuali. Financo storiche e sociali. Ma per ciò che concerne la realtà dei fatti – il principio di realtà mutuato dal pensiero di Freud e qui applicato in senso lato – Cremona non è città sicura. Non lo è da mesi ormai.

Non è il Bronx degli anni Ottanta, intendiamoci. Non è Kiev in questi anni e men che meno una qualsiasi città di frontiera come quelle narrate da McCarthy nel suo Meridiano di Sangue.

Cremona è una città di provincia che, sebbene lentamente, incede nel tempo. Risente, benché con una certa “latenza”, dello Zeitgeist, lo “spirito del tempo”. Né potrebbe fare eccezione.

E il tempo non è un cristallo. Il tempo, per definizione, scorre. Ne consegue che sia la società ad adattarsi ad esso, e non viceversa. E il tempo che viviamo è questo. Sì, anche a Cremona. In questo angolo che, in un ossimoro concettuale, temevamo richiuso su se stesso eppure speravamo “salvo” dal mondo che ci circonda.

Ma ci sono la cronaca, i fatti. La realtà è altra. Aggressioni, ruberie, rapine, pestaggi, hanno bucato la bolla. E Cremona si è scoperta, in questi mesi, città come ogni altra. Città che a lungo si è lasciata coccolare da un inganno narratologico (uno scaltro storytelling, direbbero quelli furbi che tanto adorano gli anglicismi). E l’inganno si celava dietro una parola a lungo soffiata fino a renderla odiosa. Irritante non meno di “iconico”, “resilienza” e altre amenità.

E quella parola è “percezione”. Percezione di sicurezza. Cremona è città sicura, ci si chiedeva? Lo è, si rispondeva. Pochi steli non fanno un prato. Qualche scazzottata non decreta una guerra.

Così ci si è trincerati dietro la “percezione”, il paravento che separa garbatamente dal principio di realtà. Finché la bolla si è rotta e alla favola di Esopo, al grido “al lupo al lupo”, non ha creduto più nessuno. Nemmeno nei Palazzi.

Ebbene, superato, se possibile, il preconcetto, tocca guardare la realtà. E la realtà è una sommatoria di fatti. Quegli stessi fatti che si susseguono da mesi in città.

Se mi si perdona il passaggio alla prima persona, a mia modesta memoria, da che sono cronista non ricordo simili escalation. E credo che questi fatti impongano una netta presa di coscienza. Alla quale devono seguire attività concrete. Una su tutte, la si finisca di nascondersi dietro al paravento, per una buona volta. Il giochino non regge più. Anche un cretino lo capirebbe.

Applicare al tema della sicurezza un concetto buono forse solo per il meteo, stanca. Esaspera gli animi. E i segnali di una città esasperata ammiccano ovunque.

Si scorrano i social. Si parli con le persone. Si parli con baristi e negozianti. Monta un pericoloso sentimento revanchista. Voci (fortunatamente) isolate invocano l’esercito. Propongono ronde. Soffiano sulla rabbia proclamando l’adunata che altro scopo non avrebbe se non la giustizia sommaria. Quella del singolo cittadino. Fuori dalle aule di tribunale. Svincolata dall’operato delle forze dell’ordine. In una parola: da determinati cantoni si evoca il Far West.

No. Non è questo che serve. Come non serve incollare lo sguardo sullo specchietto retrovisore. Ricordare che in campagna elettorale la sinistra parlava di “percezione” e la destra strepitava di sicurezza. Risolverebbe forse qualcosa restare col pensiero inchiodato a quei mesi e a quegli errori? Cambierebbe le cose? Porterebbe ad atti concreti? No. Non farebbe altro che disperdere energie e forze in un rivolo nostalgico all’insegna del trito “io l’avevo detto”.

Allo stesso modo, occorre polemizzare? Certamente sì, se lo scopo è mettesi in mostra. Ma mettersi in mostra a spese di ragazzi bullizzati, donne molestate, uomini malmenati è vile. E non risolve.

Però i segnali ci sono. Sissignore. Si aprano gli occhi e si stringa il polso della città. Si vedrà che il clima si sta arroventando. E ignorare questi segnali equivarrebbe a commettere un doppio errore, reiterando il primo.

Occorre senso di responsabilità. Delle istituzioni, in primis, dalle quali ci si attendono (e ci mancherebbe altro!) azioni concrete, non parole vuote e di circostanza. Occorre senso di responsabilità e azione da parte delle istituzioni, dalla politica e dalle forze di polizia. Occorre senso di responsabilità da parte dei cittadini.

Perché qui il colore politico va messo da parte. E se qualche testa deve cadere, che qualche testa cada. Se un politico, un assessore, un rappresentante delle forze dell’ordine non si è mostrato all’altezza del compito cui è stato chiamato, lasci. Si assuma quello stesso senso di responsabilità e lasci. Si dedichi ad altro. Lo faccia prima che sia troppo tardi. Prima che il vento della rivalsa prevalga.

Federico Centenari

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