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«Non molli mai, vero?» «Solo quando sono proprio obbligata. Però so perdere molto bene».  «Meglio di me». «Io ho fatto molta pratica». 

New York, Hubbell Gardiner e Katie Morosky casualmente s’incontrano per strada dopo anni che si erano lasciati e non si vedevano. Lei, attivista politica, distribuisce volantini e raccoglie firme contro la bomba atomica. Lui, affascinante scrittore borghese, è atteso in una televisione per una registrazione.

È l’ultima scena di Come eravamo (1973), storia d’amore struggente e impossibile. Finale straziante e memorabile con The Way We Were, canzone da Oscar. Un prodotto quasi perfetto, con una chimica che avviluppa e titilla le corde dei sentimenti, coinvolge e suscita emozioni.  Riporta in superficie ricordi dimenticati e provoca occhi rossi e lacrime.  Lei è Barbra Streisand. Lui Robert Redford, morto alcuni giorni fa.

Ma il film non è solo questo. È molto di più. È il ritratto di un’epoca storica, di due classi sociali diverse e lontane tra loro. È l’occasione per riflettere sull’impegno delle donne in politica. Delle donne che non mollano mai. Che sanno perdere molto bene perché hanno fatto tanta pratica.  Che non si arrendono.  Che, come Katie, continuano a distribuire volantini e raccogliere firme ai banchetti per qualche nobile causa. Che sgomitano e non si perdono d’animo e lottano sempre e comunque per un ideale. 

Un buon motivo per parlare di quelle donne che con Fiorella Mannoia cantano «siamo ancora qui, con più speranza che paura».

Sono passati cinquantadue anni dall’uscita di Come eravamo, una settantina dall’epoca in cui si svolge l’azione, ma non è un film vecchio e superato.  Non odora di muffa. È il Come siamo vintage, fotografia della nostra provincia. Ferma, ingessata e priva della  vitalità di Hubbell e Katie, è spenta e monotona. Rassegnata. 

Le donne come allora, più di allora, sono al fronte «con i piedi sulla terra e lo sguardo verso il cielo», con risultati non sempre proporzionali agli sforzi e alle risorse profuse.  

Troppo spesso le Madonne assurgono nel cielo maschile non per il loro valore, ma per l’obbligo di legge che impone la presenza femminile negli organismi istituzionali. E non è la strada migliore per raggiungere la parità di genere, anche se la saggezza popolare suggerisce che piuttosto di niente, è meglio piuttosto.  E poi c’è il futuro. C’è ancora domani. 

Un domani però lontano se si leggono le ventinove pagine de Le nostre sindache, una ricerca di Cinzia Fontana.  Ricco di numeri, il lavoro disegna una mappa delle donne impegnate nella pubblica amministrazione in provincia di Cremona dal 1946 ad oggi.  Presentato il 10 marzo di tre anni fa nella sala Ricevimenti del Comune di Crema all’interno di un convegno sulle sindache d’Italia (Cremaoggi, 12 marzo 2022), lo studio non è mai stato pubblicato.

La prima sindaca del nostro territorio è stata Angela Raimondi di Salvirola.  Eletta nel 1959, rimase in carica per 16 anni, fino al 1975.

Il primato di longevità sindacale femminile appartiene invece a Maria Stefana Mariotti di Pescarolo e a Maria Pia Sirini di Tornata.  Entrate in pista nel 1985, l’hanno lasciata nel 2004, dopo 19 anni.

Nel decennio 1975-1985 il potere è tutto maschile.  Donne nell’angolo. 

Nel 1995, con l’elezione diretta, 7 Comuni su 113 vengono espugnati dalle Lady Oscar locali.

Nel 2004 la provincia si colora di rosa pallido con 17 sindache. Oggi sono 11, il 9,73 per cento dei sindaci provinciali. Una miseria e un posto assicurato nella retroguardia delle province lombarde, ma pochi si pongono interrogativi.  Ancor meno coloro che si preoccupano. E non c’è motivo per esserlo: pedalare in fondo al gruppo è una peculiarità del nostro territorio. 

Un quadro non da standing ovation.  Non desolante e neppure avvilente.  Triste.  Non un Renoir, ma nemmeno una crosta.  Una via di mezzo. Una mitica tela con il ritratto dell’anziano calvo, occhiali e pipa in bocca, venduta ai mercatini domenicali e alle fiere patronali.

Ma c’è di peggio.  Alla guida dell’Amministrazione provinciale non c’è mai stata una donna. Tutti presidenti uomini. Tutti caballeros. Non tutti fenomeni. 

Cremona non è mai stata governata da una donna. Crema, sì.  Da Stefania Bonaldi. Gazzosina alla menta all’inizio del primo mandato, Tequila bum bum alla fine del secondo.

Per meriti e non per legge Fiorella Ghilardotti è stata per due anni (1992-1994) presidente della Regione e per dieci anni europarlamentare (1994-2004), ma non rientra tra i politici e pubblici amministratori più celebrati dai cremonesi.

La cremasca Carla Spelta, sindacalista Cgil, è stata per alcuni mesi consigliera regionale.  Nell’aprile 1995, a sorpresa ha vanificato le indicazioni del Pds e ha sconfitto il compagno di lista, il cremonese Giuseppe Tadioli, burocrate di partito con l’appeal di un funzionario brezneviano. Poi la ragion di partito ha prevalso sul voto popolare e sul genere.  La Spelta si è dimessa. Il predestinato è subentrato nella normalità piatta e frustrante del così doveva andare e così è andata. Ma allora i segretari e gli organi di partito contavano. Oggi molto meno, sostituiti dalle storie e dai reel sui social.

Cristina Cappellini è stata assessora alla cultura, identità e autonomie con la giunta di Roberto Maroni (2013-2018). Anche lei non gode di grande popolarità tra i politici. È apprezzata come scrittrice e poetessa. Troppo educata per l’arena della politica.

Tre le donne andate a Roma: la stessa Fontana, Silvana Comaroli e Claudia Gobbato. Quest’ultima (2018-2022) è stata una meteora. Un fantasma, un miraggio nel deserto. Pochi fortunati si sono accorti della sua presenza nella capitale.

Comaroli, senatrice e deputata ininterrottamente dal 2008 e ancora in carica, è la pantera rosa della politica locale. Si vede e si sente poco, ma c’è.  L’esposizione mediatica, inferiore a quella dei suoi colleghi, non le impedisce di incidere e pesare.

Curriculum politico da paura per Cinzia Fontana, la Nilde Jotti in riva al Serio e vice sindaca di Crema. La sua storia rende insignificante il cursus honorum della maggior parte degli amministratori pubblici locali.  Il suo impegno politico seppellisce un buon numero di giovani maschietti rampanti, che se la tirano, se la suonano e se la cantano da soli. Nulla da spartire con i George Duroy da strapazzo che oggi bazzicano tra i partiti in cerca di sistemazione. Velleitari pischelli che sbagliano anche a salire sull’ascensore per i piani alti della scala sociale. Frustrati restano al piano terra.  Fontana è partita dal basso ed è arrivata in cima senza percorrere scorciatoie. È stata sindaca di Vailate, sindacalista, deputata, senatrice e non solo. Superfluo aggiungere altro.

Un capitolo a parte meritano le sindacaliste. Oltre alla ubiquitaria Fontana, a memoria ci sono Marisa Fugazza, Maura Ruggeri, Donata Bertoletti. Poi Elena Curci segretaria generale della Cgil provinciale. Grintose, rispecchiano meglio lo spirito e lo stile delle antenate del Pane e rose «I cuori muoiono di fame così come i corpi; dacci il pane, ma dacci le rose». Era il 1911. L’anno successivo, le donne del Massachusetts scioperano contro le condizioni di lavoro nell’industria tessile. Rivendicano una migliore qualità della vita. «Vogliamo il pane, ma anche le rose», diventa il loro slogan.

In Come siamo questo difficilmente succede. Nella nostra provincia è quasi un’utopia. Al contrario Come eravamo permette alle rose di non appassire. Innaffia la speranza. Fortifica la resilienza. 

Grazie a Hubbell Gardiner. Ma grazie anche a Joseph Turner, a Jeremiah Johnson, a Bill McKay, Bob Woodward. Grazie a Robert Redford che li ha interpretati. E poco importa se Donald Trump li spedirebbe all’Inferno. I film come i libri non bruciano. Le idee e gli ideali non muoiono. Riposa in pace Robert. E stai tranquillo, sono in molti a non mollare. Ma non lo dicono. Peccato.

 

Antonio Grassi

 

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