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«Bruce come out tonight! By Crema». Era il 28 giugno 2003. Lo striscione bianco con scritta nera, pendeva di fronte al palco, dal primo anello dello stadio di San Siro. Dietro, sbarbati tredicenni, navigati ultracinquantenni e un gruppetto delle generazioni intermedie, quelle che quasi mai fanno notizia. C’era anche Fabio Bergamaschi, studente diligente, fresco di promozione in quinta liceo. 

Giovedì sera, 3 luglio 2025, ventidue anni dopo, ultimo concerto del Land of Hope and Dreams Tour di Bruce Springsteen con la E Street Band

Crema era ancora lì, di fronte al palco, un anello più in alto. Senza striscione e con molte assenze. 

I tredicenni sono cresciuti. Gli ultracinquantenni sono nonni. Fabio è sindaco di Crema. 

E anche Bruce è diverso. Furioso con il presidente Trump. «Nella mia casa, l’America che amo, l’America di cui ho scritto, l’America che è stata un faro di speranza e libertà per 250 anni è attualmente nelle mani di un’amministrazione corrotta, incompetente e traditrice».

Più militante politico e capopopolo. Più predicatore, ma senza retorica. Sempre a raccontare l’America proletaria. Sempre travolgente, coinvolgente e convincente. Positivo e propositivo.  

Lui classe 1949, più giovane di tanti giovani. Lui unico. Evergreen, mito per tutte le età. Lui, che sprona a non disperare. Modello di resistenza e resilienza.  Lui che cita James Baldwin: «In questo mondo non c’è tutta l’umanità che si vorrebbe, ma ce n’è abbastanza». 

Lui che chiarisce subito dove vuol condurci. «Benvenuti nel tour della terra della speranza e dei sogni che mostra il potere giusto dell’arte, della musica, del rock and roll in tempi pericolosi».

Lo stadio è sold out e sugli spalti una strepitosa coreografia realizzata dai fan italiani di Our love is real regala a Bruce la scritta See me in your dreams. 

Il concerto galleggia tra realtà e sogno, senza sconti per la prima e una infinita apertura di credito alla speranza. «Il clown criminale ha rubato il trono. Ruba ciò che non potrà mai possedere. Possa la verità risuonare da ogni piccolo bar di paese. E illumineremo la casa delle mille chitarre». 

La via del ritorno in macchina, lunga e snervante, non scalfisce il piacere per avere assistito a un concerto eccezionale. Non inquina la felicità per avere partecipato a un momento straordinario. 

Tre ore da custodire tra i ricordi più cari. Tanto significativi da convincerti a conservare il biglietto digitale e chissenefrega se ha perso il fascino del suo antenato di carta.

Un giovedì sera per dire: io c’ero, per non dimenticare – un domani – come eravamo. Per riflettere su quello che «accade oggi nella democrazia dei nostri Paesi».

Per battere il cinque a se stessi per l’acquisto, a un prezzo eccessivo, della t-shirt commemorativa dell’evento. Per averla indossata anche se non si ha più l’età per queste cose. Ma non esiste l’età per agire fuori dal coro. I pretoriani dell’ortodossia formale e sterile lo vietano, anche se tutti, almeno una volta, auspicano di essere solisti. Di andare controvento. Di viaggiare in direzione ostinata e contraria. Di non essere mainstream. Di fottersene del giudizio altrui. E di fregarsene dei like e degli hater. D’infischiarsene degli applausi tanto al pezzo. Del consenso fasullo e drogato.

Un giovedì sera per compiacersi del proprio sorriso autoassolutorio e beffardo che ha irriso i sacerdoti dell’omologazione e della relativa inerzia. Già. Anche una maglietta con il titolo di un tour e una data può essere terapeutica, più economica e, forse, più efficace di una seduta con lo psicologo.

Non è stato un giovedì da leoni, come il mercoledì dei surfisti di John Milius, ma è stato gratificante, appagante, emozionante.  Memorabile non solo per il concerto, ma per molto altro. 

Per l’adesione all’appello di Bruce.  «Stasera, chiediamo a tutti coloro che credono nella democrazia e nel meglio della nostra esperienza americana di unirsi a noi, alzare le vostre voci contro l’autoritarismo e fare risuonare la libertà». 

Per le riflessioni del giorno successivo, anche se non è sempre facile condividerle con altri.  Non per cattiva volontà, ma per evitare l’invito a non rompere le palle. O peggio, per non essere impallinati da un tranchant e spiazzante: «A me che cazzo me ne frega di quel che ha detto Bruce Springsteen». È la società del disincanto. Dell’ognuno per sé e al diavolo gli altri. Della mors tua, vita mea. Degli sconfitti. Di chi si è arreso.  Della stanchezza di Byung-Chul Han. Della depressione, della sindrome da deficit di attenzione e iperattività, del disturbo borderline di personalità, del burnout. Delle vittime da prestazione. Non quella di Bruce.

È il mondo dei simil replicanti, poco distante dalla distopia, popolato da cyborg e da individui con la memoria cancellata o manipolata. Con Fahrenheit 451 dietro l’angolo, ma i censori insieme ai libri bruciano anche i cervelli. Con Elon Musk che lo auspica.

Non è l’universo di Bruce. Incompatibile con Bobby Jean, Badlands, a Thunder Road.  Con il cavaliere romantico. Con il John Wayne che denuncia i torti.

Con Death to My Hometown, My city of ruins. The river, The promised land, chissà perché il pensiero corre a Cremona, senza un’analogia specifica. Poi Youngstown da ascoltare e riascoltare.

Bruce contagia ed emoziona. Trasmette energia, forza vitale. È antidoto all’indolenza e al menefreghismo imperante. È antitesi ai politici locali, ripiegati su se stessi, chiusi nelle loro monadi di potere e di confraternite della spartizione. Talpe che si muovono con abilità nel buio delle conventicole, ma miopi non leggono il futuro. Bravi a scavare cunicoli e gallerie, ma negati nella costruzione di ponti.  Distanti dalla casa delle mille chitarre, allontanano i cittadini e affogano la speranza.

Rappresentanti della democrazia, sono i più efficienti e fedeli esecutori della post democrazia governata da lobbisti e tecnocrati. Attenti alle richieste degli stakeholder, trascurano il bene comune. 

Mette tenerezza pensare che tanti anni fa sui muri i giovani scrivevano «La politica si fa nella strada». Ora nei consigli di amministrazione. 

E intanto Bruce canta Born to run: «Dobbiamo andarcene finché siamo ancora giovani perché i vagabondi come noi, piccola, sono nati per correre». Ma per andare dove, con chi e per che cosa?

Per salire sul treno che trasporta   santi e peccatori, puttane e giocatori, perdenti e vincitori cuori infranti e ladri, anime gentili scomparse, sciocchi e re. Sul treno dove i sogni non saranno repressi e la fede verrà ricompensata. Sul treno di chi non si rassegna. Di più non si può chiedere. Ma lui è il Boss. Tanto basta.

C’è posto anche per i politici locali, leader e attendenti.  E domani ci sarà il sole e tutta questa oscurità passerà. Parola di Bruce. 

Il viaggio non costa molto: 50 euro e ti danno anche una t-shirt per non scordare la destinazione: Land of Hope and Dreams.

 

Antonio Grassi

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