Verso la fine degli anni Cinquanta del secolo scorso, nel Cremonese, quando con sollievo si poteva dire che la nebbia si era alzata, la visibilità era la stessa di oggi quando la si definisce nebbione. All’epoca, la coltre bianca era talmente fitta che c’era chi raccontava di non essere riuscito a trovare la strada di casa; c’era chi riferiva di non aver potuto scorgere l’altro lato di viale Trento e Trieste; chi, arrivato a fatica alla rotonda di via Persico, era costretto a fermarsi, abbassare entrambi i finestrini e restare in ascolto: soltanto quando il silenzio era totale attraversava l’incrocio sgommando perché dalla coltre bianca poteva sbucare un camion o qualche auto. Coloro che per gli spostamenti usavano bicicletta o motorino entravano all’osteria o arrivavano a casa con le sopracciglia dipinte di bianco dalla nebbia, come pure il
cappello e il tabarro.
La sera, sulle strade, il silenzio era assoluto sia perché la nebbia attutiva i rumori sia perché quanti più potevano se ne stavano in casa al calduccio. Chi era costretto a guidare nel buio, accendendo i fari creava davanti a sé un muro bianco, reso ancor più impenetrabile dai fasci di luce degli antinebbia, accessori che promettevano di fendere la nebbia, ma di fatto la aumentavano. Qualche volta, drammaticamente, si materializzava sul cofano della macchina la sagoma di un ciclista, che veniva spedito in ospedale o, in qulche caso, anche al Creatore.
Fuori città, l’illuminazione pubblica era inesistente e, anche se la provinciale da Persichello a Cremona era sostanzialmente una linea retta, le croci sull’asfalto nella stagione delle nebbie, che durava da ottobre a marzo, non erano infrequenti. Si trattava per lo più di operai che, dopo aver terminato il lavoro, se ne tornavano a casa su vecchie biciclette, non ancora dotate del faretto rosso illuminato. Sul parafango posteriore veniva applicata una lente fosforescente chiamata ‘;gemma’, talmente opaca che non rifrangeva la luce neppure nelle serate limpide. Alcuni, in un estremo tentativo di sopravvivenza, dipingevano di bianco l’ultima parte del parafango illudendosi di attirare nell’oscurità l’attenzione degli automobilisti.
Due fratelli di 23 e 20 anni se ne stavano tornando, verso mezzanotte, a Persichello, dalla città, dove avevano trascorso il sabato sera al bar Ariston di via Manzoni con i soliti amici. Superato il passaggio a livello di via Persico, la loro utilitaria fu inghiottita da una nebbia fittisima. La velocità venne ridotta e, come si usava in quelle situazioni di visibilità quasi nulla, la vettura procedeva in mezzo alla strada per poter seguire come guida il tratteggio bianco della linea di mezzeria. A bordo, oltre al silenzio, era palpabile l’apprensione di vedere spuntare improvvisamente fari che arrivavano in senso contrario: lo scontro sarebbe stato quasi certo. Dal volante, il colpo d’occhio prendeva d’infilata i trattini bianchi che apparivano sull’asfalto, il muro di nebbia e i riferimenti che si guardavano attraverso i finestrini per capire
dove si fosse.
Una visione da set cinematografico del terrore, quando, all’altezza del quartiere Maristella, in piedi fermo al centro della strada con la bicicletta per mano perpendicolare alla strada, un uomo di bassa statura stava immobile. Non ci fu il tempo per nessuna manovra: venne investito in pieno insieme con la bicicletta. Uno schianto ed entrambi sparirono nel buio. I due giovani, incuranti del rischio, girarono la macchina sulla strada e, con quel poco che si poteva vedere con la luce dei fari in quella notte di nebbia, manovrando avanti e indietro sul bordo della strada cercavano con la luce dei fari dove il malcapitato potesse essere atterrato. Lo individuarono disteso sull’erba, poco oltre il ruscello: non dava segni di vita.
Scesero e, sempre sperando che la loro buona stella non facesse sopraggiungere qualche macchina, lo adagiarono sul divano posteriore e ripartirono verso l’ospedale, che all'epoca era nell’attuale piazza Giovanni XXIII, in pieno centro cittadino. Temevano che il poveretto avesse perduto la vita, immobile com’era stato dal momento del ritrovamento. Quando furono quasi arrivati al Pronto Soccorso si udì proveniente dal sedile posteriore un lamento indefinito, poi qualche parola incomprensibile seguita poco dopo da una serie di improperi rivolti al guidatore. I due li ascoltarono quasi con sollievo, in quanto erano la prova che il presunto morto era vivo.
Collocato su una barella dagli infermieri, spinto all’interno del nosocomio, una volta arrivato davanti al medico di turno, questi lo apostrofò: ”Ancora sei qui, sempre ubriaco, quando la smetterai di bere?”. Il Santo protettore degli ubriachi si trovava quel sabato notte al quartiere Maristella e l’investito, forse protetto dalla bicicletta, non riportò neppure un graffio.
I due giovani, sollevati dal pensiero di aver ucciso una persona, avrebbero potuto tornarsene a casa, ma prevalse in loro l’ubbidienza civica e si recarono al comando della Polizia Stradale, quando erano ormai le quattro del mattino, per denunciare l’accaduto anche perché pensavano di essere dalla parte della ragione. Raccontarono l’episodio, una pattuglia li seguì sul luogo dell’incidente, fece i rilievi, e con grande sorpresa dei due ragazzi, a conclusione dell’operazione, elevò al guidatore la contravvenzione perché, come prescriveva il Codice Stradale, ”non aveva regolato la velocità in modo da riuscire a fermarsi davanti all’ostacolo”.
A nulla valse la giustificazione che quello era fermo in mezzo alla strada con la bicicletta per mano in una serata di nebbia fitta.
Sperangelo Bandera