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Me ne stavo altrove affaccendato, lunedì 14 ottobre scorso, quando ricevetti un messaggio  WhattsApp ‘Caspita’, mi dissi, ‘questo sì che è un bel soggetto, di cui se ne parla spesso ma che raramente  viene fatto vedere in pubblico, salvo su riviste specializzate.’ 

‘Appena posso vado a fotografarlo, prima che faccia una brutta fine ‘. 

Chi sarà mai? 

Di questi tempi si parla molto della statua di Pulcinella dell’artista Pesce. Ma quella sta fino a  Napoli, e poi non è vero che non la fanno vedere, anzi fin troppo! E in effetti il mio soggetto se ne stava molto più vicino, in città, in un boschetto. Bastava  immergersi in qualche centinaio di piante per trovarlo. 

No problem. 

Benché poi l’avessi visto già molte volte, è sempre un “piacere” rivederlo, una sorta di attrazione  fatale, irresistibile. E un qualcosa che con l’opera dello scultore ligure sembra avere un’affinità elettiva

Che si trattasse allora di questo stravagante individuo, (foto1) trovato pochi giorni prima in un  parco dove non l’avevo mai visto, benché lo frequentassi da molti anni? 

Effettivamente la similarità al Pulcinella di Pesce è inequivocabile, a smentire la diceria circolata  sul suo conto, che “non è vero ciò che appare”. 

What appears? E’ proprio il caso di dirlo!  Un fungo, il cui genere prende il nome proprio dalla sua apparenza, e cioè Phallus e di specie  hadriani, tipico di pianura, ma di cui per motivi di spazio mi limito solo a ricordare che è chiamato  anche “uova del diavolo”. Chissà perché! 

Non era dunque neppure questo soggetto il nostro essere misterioso così ‘attraente’ che meritava di essere visto quanto prima e che con entrambi i soggetti citati aveva una stretta affinità. 

Giunsi rapidamente sul posto e non feci fatica a trovare le piante, due tigli (foto 2) alla cui base  crescevano alcuni funghetti. Eccoli spuntare dietro le foglie basali, sulla destra. L’avevo dunque  trovato l’oggetto della segnalazione! Apparentemente banale, piccolo, bianco, un po’ più scuro al  centro del cappello. 

Esso cresce anche sotto quercia, carpino. Più raramente sotto conifere

Ma sotto o strettamente a fianco, attenzione, non sopra le piante; cioè non  attaccato al legno o alle radici emergenti, perché a volte, come in questo caso, esso cresce talmente  a ridosso degli alberi, che ai profani può sembrare lignicolo, e portare perciò a degli spiacevoli  equivoci. 

Un secondo gruppo di tre esemplari (foto 3) se ne stava sotto l’altro tiglio.

Il cappello involuto, campanulato, segnale di giovinezza, ma con tinte fredde per la scarsa  luminosità ambientale, su un bruno giallastro più scuro al centro, e con la cuticola del cappello più  grande lacerata in maniera simmetrica, come se fosse stata sollevata e staccata da qualcuno. E una  sua caratteristica tipica è proprio il facile distacco della pellicola cuticulare dalla carne sottostante,  che è bianca, immutabile cioè non virante al tatto, alla maturazione salvo nelle fasi finali della  premorienza ove tende a ingiallire un po’. 

Per la dissociazione della cute è per lo più implicata la disidratazione ambientale, ma non mi pareva  quello il tempo, viste le frequenti piogge.  

Si nota poi un distacco più grande che comprende anche la carne e che lascia pensare o a un crollo parafisiologico, nota la fragilità intrinseca di queste strutture, o all’intervento di qualche animale,  supportato anche dal riscontro di altri distacchi parcellari sulla volta, che con un cedimento proprio  non ci stanno. 

Si poteva pensare allora alle lumache, che di questo fungo si nutrono beatamente. Che sia buono,  dunque?  

Alla base si può poi intravedere una struttura bianca che orienta meglio sul suo genere di  appartenenza. 

Essa si chiama volva, così chiamata per la similarità guarda caso con la vulva, l’insieme degli  organi genitali femminili esterni, e che rappresenta il residuo basale di quel velo universale che lo  avvolge alla nascita e che da noi è tipica di pochi generi tra cui i più comuni sono le Volvarielle, i  Volvopluteus e le Amanite. E questo restringe molto il campo della ricerca, peraltro necessaria, anche perché il riconoscimento della specie di appartenenza è il criterio principe, imprescindibile,  per capire se ci troviamo di fronte a una specie commestibile oppure no. 

Benchè la fotografia dei due cappelli ravvicinati (foto 4) sia molto suggestiva per le tonalità calde  che il colpo di flash conferisce, una foto del genere è errata dal punto di vista del riconoscimento o  quanto meno incompleta. Essa rimanda alla cattiva abitudine di tanti ricercatori di individuare i funghi guardandoli solo dall’alto. Grave errore perché questa visuale non rappresenta tutte le parti che è fondamentale conoscere. Tuttavia essa evidenzia quella tonalità giallo oliva brunastra che è  una di quelle tipiche della specie, oltre il margine bianco e appendicolato del cappello. 

Colorazione non esclusiva perché la possiamo trovare anche ad esempio nel Tricholoma sejunctum, il  più simile ma di montagna e non commestibile, e soprattutto nei chiodini, Armillaria mellea che  invece vengono consumati e che si differenziano tra l’altro per la crescita cespitosa lignicola e  l’assenza di volva. 

Ci sono altre colorazioni che possono portare a fatali confusioni, come questa apparentemente  bianca del cappello (foto 5) che fa pensare ai prataioli (Agaricus sp) i quali però hanno le lamelle rosa più o meno carico o grigio e non hanno volva. 

La distorsione cromatica di quest’immagine (foto 6) sembra velare di un filtro rosa tutte le parti,  comprese le lamelle che per la volva coesistente possono far pensare alle Volvarielle e ai  Volvopluteus. In realtà questi generi tra l’altro sono tutti sprovvisti di anello.  

In definitiva, il cappello presenta uno spiccato policromatismo che può indurre in errore, anche se  le tinte più tipiche sono la bianca nella forma alba e la verde giallo olivastra con sfumature marroni.

In quest’immagine (foto 7) abbiamo rappresentata la quasi totalità dei suoi caratteri. Del cappello ho già detto; l’anello bianco è sito nella parte alta del gambo a cui è fissato col bordo superiore,  mentre è libero e allungato in basso a gonnellino; le lamelle, bianche e fitte, non sono collegate  direttamente al gambo, per cui si parla di eterogeneità gambo cappello, dovuta a strutture differenti,  che consente di staccare l’uno dall’altro senza romperli. Infine il gambo bianco crema svasato in  alto, ricoperto da ornamentazioni zebrate o a pelle di serpente, che si ingrossa a bulbo verso la  base e che si inserisce in una volva irregolare ampia e aperta in alto a sacco

Vedendo poi da vicino l’anello (foto 8), esso presenta ampie pieghe percorse da sottili striature che ricordano un raffinato panneggio di qualche statua antica. 

Nell’immagine successiva (foto 9) l’anello è attaccato al gambo, segno precoce, residuo di quel velo parziale che ai primordi unisce il gambo col cappello, per proteggere l’imenoforo, la parte  riproduttiva immatura e quindi (foto 10) la volva che avvolge il bulbo basale aperta in alto. 

Non rimane che ammirare la bellezza di questi diversi esemplari allineati (foto11) e di questi altri  lucenti (foto 12) ove ben si vedono le fibrille radiali brunastre tipiche del cappello.  

Uno splendido esemplare di cui però non vi ho detto ancora il nome. 

Ebbene ci troviamo di fronte nientemeno che alla famigerata Amanita phalloides, uno dei funghi  più pericolosi al mondo, mortale per l’uomo a piccolissime dosi, ma non per le lumache. 

Ed è sul nome che voglio terminare, riprendendo il tema iniziale.  

Amanita pare dal greco Amanò, monte tra la Cilicia e la Siria ove sarebbero fatte risalire le prime  segnalazioni, o forse dal greco Amanitai come termine generico dei funghi. Phalloides quindi  perché a forma di fallo.  

Veramente a guardare le foto la forma di fallo proprio non la si riesce a vedere. E allora a cosa si  riferisce? Per intuirla ho introdotto una foto di repertorio (foto 13) ove lo si vede in diversi stadi di  sviluppo. A noi interessano ora quello di uovo rivestito totalmente dal velo universale bianco e  quello giovanile a destra, un piccolo fungo che esce di poco dalla sua volva. 

Ebbene la forma falloidea si riferirebbe a quella intermedia tra le due, ove il cappello è attaccato  alla volva, come un glande attaccato ancora al prepuzio

Certamente una raffinata osservazione naturalistica su un tema apparentemente imbarazzante che  può sfociare nel goliardico come nel caso di Napoli, e tuttavia con tutti i particolari che c’erano,  scegliere per il nome di specie questo aspetto così raro a vedersi, mah…! E’proprio una bella  ‘fissa’!! 

A parte le incredibili correlazioni etimologiche, lo scopo mio era offrire anche la migliore  descrizione possibile dell’Angelo della morte (così è anche chiamato) dalla pelle di serpente che  richiama le uova del diavolo, che ha tra l’altro un odore cadaverico e che cresce da noi  preferibilmente nel mese di novembre, il mese dei morti. 

Una conclusione che è tutto un programma, affinché nessun micofago abbia più a subire la sua  attrazione fatale, che cinematograficamente parlando potremmo chiamare anche “attrazione  letale”.  

Nulla cambia. 

Stefano Araldi

 

 

 

 

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