‘A Classic Horror Story’, se gli italiani fanno scuola

23 Agosto 2021

La definizione migliore di autore postmoderno rimane ancora quella di Umberto Eco che, con arguzia, ha scritto: ‘Lo scrittore postmoderno è quello che scrive come Liala, sapendo perfettamente di scrivere come Liala’. In altri termini, è colui che fa dell’imitazione dell’autore prediletto non un plagio, ma una questione di stile.

Le parole del grande semiologo sembrano le più adatte a commentare lo spirito di un horror  di buona fattura come A classic horror story (attualmente su Netlix), che già nel titolo allude alla sua ‘classicità’, cioè, in questo caso, alla sua volontà di tenersi stretto ai modelli più prestigiosi che hanno costruito il genere.

Del postmoderno, il film riflette due componenti di fondo: prima di tutto la sfida ai lettori ad individuare le opere alluse (e a volte parodiate) nell’opera. Viene poi ribadito continuamente che il lettore (o lo spettatore) non si trova di fronte ad un’opera che si ispira alla realtà, ma che al contrario gli viene proposto un prodotto culturale artificioso, costruito a tavolino, che si nutre di quanto è stato scritto o prodotto prima. Per quanto riguarda il citazionismo, A classi horror è talmente impregnato di rimandi ed allusioni da rendere disperato il tentativo di individuarli tutti: da Non aprite quella porta di Hooper, che ne costituisce l’ossatura principale, a Dario Argento, a Tarantino e a molti altri, Inoltre, che nel film agisca una forte componente di gioco, è rivelato dall’arguta trovata finale che mostra, al termine del film, i commenti (naturalmente fittizi) degli spettatori che lo hanno appena visto e ne danno un giudizio a volte irridente e beffardo (coinvolgendo anche la piattaforma che lo ha prodotto). 

I registi Roberto De Feo e Paolo Strippoli confezionano un prodotto di qualità, anche perché non rinunciano a costruire, con questi materiali eterogenei, una storia avvincente, che riserva almeno un paio di colpi di scena ben piazzati: il che conferma che gli autori dominano il materiale che hanno scelto, non ne sono succubi.

I registi accolgono la suggestione, che già era stata dell’ultimo film di Pupi Avati, di utilizzare per l’horror italiano le tradizioni folcloriche locali e le superstizioni nostrane: nella fattispecie, il nodo leggendario della nascita della Mafia, della Camorra e della ‘Ndrangheta, con il corollario di personaggi mostruosi e di comunità assassine completamente succubi ma in tutto simili a quelle presentate negli spot sulla bellezza del vivere nel sud dell’Italia.

Gli autori si spingono anche oltre, nel suggerire la denuncia, sia pure all’interno di un’opera che ha come movente primo l’intrattenimento. L’ultima parte del film si risolve in una condanna, non banale, della spettacolarizzazione del dolore, che va attualmente tanto di moda e rende insopportabili certi programmi televisivi e le inchieste giornalistiche ad hoc: le persone comuni, tra le quali la final girl, coperta di sangue, trova rifugio, la fotografano compulsivamente, innescando un ambiguo parallelo con i criminali dello snuff movie da cui era appena fuggita. Il mondo delle immagini è un mondo crudele.

Al risultato finale concorrono il buon accordo della troupe: la perizia dei registi nel costruire la storia e nell’impiego del mezzo cinematografico e una squadra di attori ben affiatati, tra i quali spiccano Francesco Russo e soprattutto Peppino Mazzotta, irriconoscibile rispetto alla sua interpretazione più celebre, quella di collaboratore di Montalbano nella famosa serie: e questo, ovviamente, va tutto a suo merito.

 

Vittorio Dornetti

 

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