Che cosa significa vivere con una malattia cronica

10 Febbraio 2023

L’11 febbraio è la Giornata Mondiale del Malato. Giunta alla trentunesima edizione, è l’occasione per riflettere su cosa significa oggi affrontare la malattia e, spesso, doverci convivere a lungo. Secondo le stime dell’Istituto Superiore di Sanità (2020), in Italia sono oltre 14 milioni le persone con una malattia cronica. Di queste, 8,4 milioni hanno più di 65 anni.

Accettare di convivere con la malattia non è semplice, così come costruire una nuova normalità in cui la terapia diventa parte integrante delle giornate. Cinque pazienti cronici in cura all’Asst Cremona nei reparti di Cardiologia, Oncologia, Patologia mammaria e Nefrologia, raccontano la propria esperienza e il modo in cui la malattia ha cambiato il loro modo di vivere e affrontare la propria vita.

ROBERTA: LA CARDIOPATIA “È LA MIA NUOVA NORMALITÀ”

Per Roberta, 60 anni, la vita è cambiata il giorno di Natale di due anni fa. «Il 24 dicembre ho avuto un doppio infarto, che ha colpito in contemporanea le due arterie. I medici mi hanno detto che è molto raro… Soprattutto uscirne vivi. Da quel giorno sono seguita dalla Cardiologia dell’Ospedale Oglio Po. Ora ho solo metà cuore funzionante. Da quando mi è stato impiantato il pacemaker sto bene, ma è stato un evento che mi ha cambiato la vita».

La parola “cronico” mi spaventa, non mi ritengo tale. So di esserlo, ma cerco di mettercela tutta per reagire e non pensarci. So di avere un handicap, capisco di avere dei limiti e cerco di viverli bene. Questo ha cambiato il mio modo di vivere: ho rallentato, cerco di ascoltare il mio corpo e stare tranquilla, lasciando perdere ciò che non mi fa stare bene. Cerco di affrontare ogni giorno con ottimismo. Sono anche diventata molto selettiva: ciò che prima m’infastidiva o poteva farmi stare male e generare ansia l’ho eliminato, e mi sento molto meglio. Ho capito che a vita è una, che bisogna rimanere combattivi, essere altruisti e cercare di volersi bene. Le cure prescritte dai cardiologi dell’ospedale e la loro attenzione mi aiutano parecchio.

Seguire una terapia è diventata la routine: ho le mie medicine, i miei orari, e vado avanti così. Dormo con un defibrillatore sul comodino: a volte lo guardo e mi chiedo a cosa serva, perché penso di esserne uscita, ma le visite di controllo mi fanno tornare con i piedi per terra. È la mia nuova normalità, con qualche limite e obbligo in più, ma si può ancora pensare al futuro. In quella circostanza un medico cardiologo mi ha detto “lei ha 58 anni, non possiamo permetterci di perdere una persona così, soprattutto a questa età”. È stato un incoraggiamento importantissimo: so che posso dare ancora molto ed è ciò che cerco di fare ogni giorno».

NORA: IL CANCRO “NON LO CHIAMO MALATTIA” E “OGNI GIORNO È BELLO”

Nora ha 75 anni, e da sei convive con un tumore al polmone. «Ho ricevuto la diagnosi nel 2016 – racconta – ricordo che mi trovavo al mare. Ho pensato: ci siamo, è la mia volta. Tornata a casa mi sono rivolta subito all’Ospedale di Cremona, per capire se ci fosse qualcosa da fare. Ho iniziato con due cicli di chemioterapia, ma non hanno funzionato. È stata dura. Non la chiamo “malattia”. Malattia per me è l’influenza, questo non so come chiamarlo. Il cancro è qualcosa che ti porti addosso. Nel mio caso non può essere tolto, io non guarisco.

Quando i medici del reparto di Oncologia mi hanno proposto l’immunoterapia non ho avuto dubbi, ho iniziato appena possibile. La terapia prosegue fino ad oggi: ho appena fatto la centoventicinquesima somministrazione, sono nel record! – scherza Nora – Devo ringraziare i dottori e tutto il personale ospedaliero. La terapia prosegue a cadenza mensile, il giovedì vado in ospedale e per un’oretta sono in buona compagnia: le infermiere sono i miei angeli custodi, un sorriso spesso fa più della medicina. A volte ti rendi conto di non vedere più qualcuno dei pazienti che incontri di solito…Avrà cambiato turno, pensi. Ma spesso non è così.

Mi considero fortunata. Sto bene, proseguo la mia vita consapevole che ogni giorno è bello, perché significa andare avanti.  So che il tumore c’è, spero che se ne stia buono. Da un momento all’altro potrebbe cambiare qualcosa, sapere di convivere con un cancro è un chiodo fisso…Ma se pensi a questo non vivi più. L’importante è reagire, andare avanti».

DONATA: “BISOGNA AVERE FIDUCIA” NEGLI SPECIALISTI

Donata, 61 anni, convive da 35 con una malattia autoimmune. Nel 2021 ha dovuto affrontare un carcinoma mammario, per il quale si è rivolta al reparto di Patologia mammaria dell’Ospedale di Cremona. «La diagnosi è arrivata in un momento molto particolare della mia vita: avevo appena concluso la mia esperienza lavorativa come infermiera, e durante un controllo senologico mi è stato riscontrato un nodulo. Già convivevo con altre patologie croniche immunodepressive, che escludevano determinate terapie. D’accordo con lo specialista che mi ha seguita, abbiamo deciso quale fosse la strada migliore per me.

Dopo una mastectomia totale e una chemioterapia adiuvante, ho proseguito con i controlli e le terapie suggerite. Essendo stata un operatore sanitario, avevo ben chiara la mia situazione e spesso conoscevo già le risposte, ma avevo comunque bisogno di qualcuno che me le confermasse. Essere un paziente cronico non è facile, perché sai che la guarigione non sarà mai completa. Ciò che conta è la qualità di vita: è importante imparare a conoscere il tuo corpo e capire quando è il momento di chiedere aiuto. Quando ho ricevuto la diagnosi della mia malattia autoimmune la prognosi era infausta, ma negli anni la ricerca e la grande professionalità degli specialisti e degli operatori sanitari mi ha permesso di proseguire.

La cronicità è anche consapevolezza: ci sono delle cure, che nel tempo si sviluppano e aprono nuove possibilità. A Cremona ho trovato professionisti preparati, disponibili e umani, che mi hanno aiutata ad accettare lo stato della mia malattia e accompagnata in questo lungo percorso, trovando sempre la parola giusta per sostenermi nei momenti più difficili. Oggi non penso troppo al futuro: vivo le mie giornate con serenità, quando sarà il momento di affrontare nuove difficoltà lo farò. Bisogna avere fiducia negli specialisti e nelle persone che stanno attorno a te. Mi ritengo fortunata, perché vivo in una società che mi consente di curarmi. La sofferenza è l’unica cosa che mi spaventa, ma anche se le cose dovessero non andare bene, so che non sarò sola».

SIMONE: LA DIALISI DIVENTA UN’ABITUDINE, I SANITARI LA “SECONDA FAMIGLIA”

Simone, 50 anni, ha appena ricevuto il secondo trapianto di rene. Se tutto va bene, metterà fine alla dialisi che da quindici anni gli permette di vivere. «Dipendere da una macchina non è semplice – afferma – come non è semplice essere sempre nelle stesse condizioni e sapere che non ne uscirai mai. I primi problemi renali si sono manifestati nel 1997, portando ad una serrata serie di controlli che tre anni più tardi hanno rivelato la necessità d’intraprendere la dialisi peritoneale. Inizialmente non l’ho vissuta benissimo ma se non c’è alternativa, bisogna andare avanti e farsi andare bene le cose così come sono.

La dialisi t’impone uno schema fisso che scandisce il tuo tempo. Andare in ospedale diventa un’abitudine: tre volte a settimana, per tre o quattro ore. Gli operatori sanitari della Nefrologia e gli altri pazienti sono un po’ come una seconda famiglia. Nel 2004 un trapianto di rene ha cambiato le cose: lì è iniziata un’altra vita, ma dopo tre anni si sono presentati altri problemi ed è stato necessario ricorrere all’emodialisi. È stato un po’ come ricominciare da zero, anche se in modo diverso. La dialisi non è una cura, ti tiene a galla. Gli anni successivi non sono semplici: alcune complicanze portano alla rimozione del rene trapiantato, a ciò si aggiunge una leucemia, che nel 2012 mi ha portato a fare un ciclo di chemioterapia, fortunatamente risolutivo.

Per anni le mie giornate sono state scandite da dialisi, terapie farmacologiche e controlli, fino al 19 gennaio 2023, quando sono stato chiamato per un nuovo trapianto. Non ci ho pensato due volte! – conferma – Se c’è un’alternativa c’è speranza, ma bisogna essere pazienti. Il trapianto può cambiare la vita, anche se sapevo a cosa sarei andato incontro. Se tutto va bene, puoi tornare ad una vita normale. Essere un paziente cronico mi ha insegnato ad andare avanti, nel bene e nel male, cercando di fare il massimo, di rimanere in piedi».

TIZIANA: SONO AL SECONDO TRAPIANTO, PENSO AL DOMANI

Tiziana ha 54 anni e ne ha trascorsi quasi venti in dialisi. «Nel 1995 – racconta – avevo poco più di vent’anni e non ero mai entrata in un ospedale. Durante una visita ginecologica mi è stato suggerito di fare accertamenti: doveva essere un controllo; invece, sono stata ricoverata per un’insufficienza renale. Poco dopo ho iniziato la dialisi peritoneale quattro volte al giorno. La vivevo come una routine: nonostante quella uscivo la sera, andavo a ballare con i miei amici, cercavo di fare una vita il più normale possibile. Dopo due anni e tre mesi ho fatto il primo trapianto di rene, che è durato tredici anni, dopo i quali ho dovuto riprendere l’emodialisi per altri otto.

Avere accanto chi ti ama è molto importante. Quando ti dicono che andrai in dialisi non sai di preciso a cosa andrai incontro. Può capitare che le persone vicine possano allontanarsi perché non riescono a sostenere una relazione con una persona malata. Mio marito mi supporta tantissimo, senza di lui sarei in crisi. Poi ci sono le persone conosciute in ospedale, nel reparto di Nefrologia: operatori sanitari e pazienti, che diventano amici e affrontano con te le lunghissime ore della dialisi e tutto il percorso condiviso.

L’anno scorso sono stata richiamata per il secondo trapianto, che a gennaio ha un anno. In questo tempo non ho mai smesso di lavorare e fare la mia vita. La cronicità è qualcosa che entra a farne parte e devi portarla avanti giorno dopo giorno. La prima volta che la incontri ti spaventa, ma non resta che accettarla e trasformarla in una routine. Ho sempre cercato di mantenere la mia indipendenza: a volte ci sono momenti “no”, ma se voglio vivere devo accettarli e andare avanti, senza fretta ma con determinazione. Perché comunque un domani c’è»

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