Felicità dall’antichità a oggi: stato di grazia sempre più inafferrabile

23 Dicembre 2022

“I soldi non fanno la felicità, figuriamoci senza”. I proverbi sono la saggezza della gente, forse a metà. Mi viene un dubbio, cerco la parola sul vocabolario. E’ felice colui che è esultante, allegro, giubilante, giulivo, sereno, appagato, soddisfatto, lieto, contento. Dovrebbe bastarmi ma non mi basta perché mi sembra che la felicità non sia una coordinata precisa ma uno stato individuale piuttosto vago. Cerco ancora su altro testo: abilità, vittoria, beatitudine, grazia, benessere, cuccagna, delizia, dolcezza, esultanza, fortuna, gioia, letizia, paradiso, prosperità, bellezza, euforia, esaltazione, eccellenza. In sostanza sempre lo stesso tasto. Mi rivolgo ai grandi pensatori del passato. S. Agostino diceva che se gli fosse stato chiesto cosa  ” non fosse il tempo” avrebbe saputo rispondere ma non sapeva invece cosa fosse il tempo, quindi figuriamoci la felicità. Stesso enigma. Secondo Tolstoj “ la felicità non è far sempre ciò che si vuole ma volere sempre ciò che si fa”. Parole, sempre e solo parole. Ricordate la bella canzone di Mina e Alberto Lupo?

Andiamo ancora con la musica, certamente l’entità più vicina al nocciolo che stiamo cercando. Per Albano e Romina, testo di Minellono, la felicità è “tenersi per mano, un cuscino di piume, l’acqua del fiume che passa, la pioggia che scende, abbassare la luce per fare pace nell’intimità, la canzone d’amore, la luna piena con la radio accesa che va, una telefonata non aspettata che prospetta l’amore fisico, l’onda che batte alla porta della felicità, aspettare l’aurora per farlo ancora”. Tutto bello ma per me la più convincente è sempre di Albano e Romina e resta “ Felicità è un bicchiere di vino con un panino” . Io aggiungo con un caffè molto forte, ristretto. Questione di gusti.

E torniamo ai grandi di ieri. Aristotele è contrario al fatto che la felicità implichi un piacere violento e breve, poiché l’uomo temperante rifugge il piacere ma soprattutto cerca di evitare il dolore. La felicità deve tendere al “ sommo bene” che in sostanza è la pratica costante di tutte le virtù umane. E’ evidente che siamo molto vicini ai concetti cristiani che tendono sempre al sommo bene. E non siamo nemmeno troppo lontani dai principi del Budda e del Tao-Zen, l’uomo può essere felice anche soffrendo purché trascenda il tutto nel nirvana. L’illuminazione estrema, la felicità, si raggiunge con l’indifferenza assoluta alle cose della vita: atarassia. Per Epicuro l’uomo deve cercare la felicità nell’estrema moderazione di qualunque piacere che può arrivare dalla pratica di qualunque cosa, soprattutto da quelle piccole.

Secondo Seneca solo la costante frequentazione della virtù che deve tendere al bene individuale e comune può dirsi felicità. Severino Boezio dice che “ la vera felicità è data dal sommo bene che non teme i mutamenti della fortuna”. Per gli stoici la felicità è il dominio delle passioni, soprattutto quelle carnali, mentre con Kant si torna al Sommo Bene e tutti i piaceri sono solo una chimera. Hume diceva che la felicità consisteva nell’aiutare gli altri piuttosto che nel piacere individuale.

In tempi a noi più vicini il tema sembra essersi spostato più che sulla ricerca della felicità su ciò che è l’infelicità: frustrazione, alienazione, incomunicabilità. E’ il teatro dell’assurdo, del paradosso: Ionesco, Pirandello, Kafka, Sartre.

Siamo al focus dell’ossessione della felicità? Non credo. Mi convince di più la certezza del panino e del bicchiere di vino.

In ogni caso “ i soldi non fanno la felicità, figuriamoci senza”.

 

Pietro De Franchi

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