Il rumore del frumento che cresce

26 Maggio 2023

“Bisognerebbe essere un altro per detestare la nebbia, quando, a volo radente, si adagia sui campi. E anche per desiderare un sole perenne…”. Così diceva spesso Giovanni, un contadino di mezza età, alle persone che, verso la fine degli anni Cinquanta, sentiva lamentarsi quando la coltre nebbiosa, che all’epoca contrassegnava il clima autunnale nella pianura cremonese, rendeva quasi nulla la visibilità. I campi, le strade, le case per alcuni mesi restavano immersi nella nebbia. Capitava che quella specie di fumo bianco fosse così denso da impedire di vedere a una distanza di dieci metri. Quella stagione coincideva con il periodo in cui l’attività agricola era ridotta perché i campi rifiutavano il tormento dei rostri degli aratri e dei cingoli delle trebbiatrici. Negli occhi dei contadini si addolciva la dura espressione accumulata sotto il sole dell’estate, tra zanzare, tafani e moscerini. Era il momento dei bicchieri di vino, della briscola e del tresette.

A Persichello, un piccolo paese a cinque chilometri da Cremona, di sera le tre osterie che erano distribuite nello spazio di appena un centinaio di metri si riempivano di avventori. Giovanni era noto per la sua dedizione al lavoro, per la sua resistenza alla fatica e per l’euforia che manifestava all’arrivo della nebbia. Sulla cinquantina, aveva sposato una donna non alta di statura e dalla tipica corporatura della gente di pianura. Era nota come la “polpacciona” per via delle gambe muscolose. Aveva il sedere basso e il seno prorompente. I lineamenti del volto richiamavano l’immagine della comare. Dotata di buon carattere, era nota in paese per la voce fastidiosa e stonata che emetteva, a grandi altezze, durante le funzioni religiose della domenica, riuscendo, con i suoi gorgheggi, a sovrastare il coro dei fedeli.

Si giocava a carte in quelle sere spensierate, si parlava di coltivi e della raccolta delle foglie dei gelsi, l’alimento dei bachi da seta che quasi ogni famiglia di contadini allevava su ripiani di bambù, a castello, che erano stati disposti nella stanza più ampia della casa. Dalla cantina delle osterie “venivano su” bottiglie su bottiglie e, quando il vino incominciava ad allentare i freni inibitori, si parlava di donne, con qualche rimpianto.

Giovanni non possedeva l’automobile. Si spostava con una bicicletta da viaggio del 1945, avvolto in un tabarro nero. L’auto era un lusso che si potevano permettere solo i ricchi agricoltori, e, raggiunta l’età per la patente, anche i loro figli e, con qualche eccezione, anche le figlie. L’abitato di Persichello si allungava lungo la strada provinciale, “lo stradone”. Le case occupavano il lato sinistro, mentre a destra scorrevano le acque di un canale d’irrigazione, sulla cui riva erano coltivati minuscoli appezzamenti a ortaggi e fiori. Il traffico era quasi inesistente e le poche macchine che transitavano dirette a Cremona venivano osservate con particolare interesse per cercare di individuarne gli occupanti. Non potevano sfuggire alla curiosità della gente due ragazze che passavano spesso a bordo della loro utilitaria sia quando erano dirette a Cremona sia quando facevano ritorno a casa, in una cascina, sperduta vicino a Corte de’ Frati. La stragrande maggioranza della gente si spostava in bicicletta e le distanze non facevano paura. Fuori dalle osterie, ammucchiate contro il muro, se ne vedevano a decine nelle sere nebbiose in cui i contadini si potevano inondare i polmoni d’azzurre nubi di fumo. Verso le dieci e mezza, le osterie si svuotavano e gli avventori facevano ritorno alle loro povere case con la mente leggera.

Giovanni non aveva avuto figli e il suo matrimonio procedeva tranquillo come accadeva alla stragrande maggioranza delle coppie “contadine” forse perché la fatica dei campi eliminava i grilli dalla testa. Tuttavia, una sera, davanti all’ultima bottiglia, si lasciò andare confessando agli amici più fidati la sua passione per una donna che abitava non lontano, manifestando il proposito di farle visita, quando il marito, che faceva l’operaio in città, fosse stato al lavoro. Aggiunse che gli piacevano le sue curve al punto giusto e terminò ammettendo che ancora non la conosceva, ma che qualcuno gliela avrebbe presto presentata. La serata stava per finire, con l’illusione della nuova avventura. Giovanni rimise accuratamente le carte da gioco nella scatola, bevve l’ultimo goccio, indossò il tabarro facendo quel movimento semicircolare molto simile alla veronica di taurina memoria, salutò, uscì, inforcò la bicicletta a scomparve nella nebbia. Il fascio di luce del fanale divideva la coltre nebbiosa dando l’impressione di un bianco corridoio d’ospedale svuotato da ogni ferita. Per lui i campi intorno erano stanze chiuse a doppia mandata, come i suoi pensieri. E mentre pedalava felice al centro della strada, avvolto nel tabarro ormai bianco di nebbia, sopraggiunse l’auto delle due sorelle, che lo scaraventò in aria, in un volo maestoso. Si fermò con l’orecchio su una zolla di terra per ascoltare il rumore del frumento che cresce.

 

Sperangelo Bandera

Una risposta

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *