‘Il signore delle formiche’ nell’Italia bigotta e provinciale

30 Settembre 2022

Sul tavolo di una festa dell’Unità che sta volgendo al termine, una cameriera scopre una formica che la infastidisce, e che vorrebbe schiacciare. Nella tavolata accanto si trova il giornalista Marcello, uno degli eroi de Il signore delle formiche, che le fa presente che poco avanti è seduto Aldo Braibanti, un mirmecologo di chiara fama, che studia le formiche e considera la loro società e il loro stile di vita un modello per gli umani. Lascia poi salire la formica sul palmo della sua mano e infine la depone delicatamente sul tavolo. Uno dei temi portanti del film di Gianni Amelio, appena uscito in sala, è tutto racchiuso in questo prologo di pochi minuti. L’identificazione della formica con Braibanti è scontata: si tratta di un intellettuale diverso e fastidioso esattamente come l’insetto. La sceneggiatura non fa niente per renderlo simpatico e suscitare empatia negli spettatori: specie nella prima parte del film appare arrogante e autoritario, scostante nei giudizi troppo tranchants, e facile demolitore delle opinioni comuni, senza neppure accennare una discussione. Come gli fa subito notare uno dei suoi futuri accusatori, la sua filosofia approda ad un nihilismo senza uscita. Eppure, in uno stato democratico (come non lo era l’Italia degli anni Sessanta), quest’uomo scostante (tranne che ai suoi fedeli), strano, omosessuale che non si vergogna di esserlo, dal fascino quasi ipnotico per la sua cultura e la sua capacità di attrarre (e proprio per questo pericoloso) ha diritto di essere accolto, e di essere giudicato al pari degli altri, e non isolato e punito col pretesto di una legge fascista, che viene riesumata alla bisogna proprio per stigmatizzare e demolire il diverso, il culaton, come appare scritto sul muro della sua casa e sotto gli occhi della madre Susanna, donna coraggiosissima e vicina al figlio fino alla morte in completa solitudine. Per rimuovere d’un sol colpo lo scandalo (quello della relazione omosessuale con il giovane Ettore, maggiorenne e consenziente), il tribunale, e cioè lo Stato, si appiglia ad una legge fascista desueta, che consente però la squallida teoria dei testi a carico, mitomani e bigotti, e il paternalismo viscido del presidente del tribunale. Del resto, che il tribunale stesso finisca per percepire, “quando l’aria è cambiata”, l’ingiustizia dell’azione legale e lo scandalo della durissima sentenza, è comprensibile dalla motivazione goffa e ipocrita con cui, in appello, la pena viene ridotta drasticamente “per i meriti partigiani” del condannato. Da questo punto di vista, Amelio riconosce i meriti del Sessantotto, e la ventata di innovazione che ha portato nel clima chiuso e asfittico di un’Italia dominata dal conservatorismo e da una chiusura mentale, che interpreta come scandalo e minaccia qualsiasi deviazione dalla norma.

L’Italia provinciale e bigotta degli anni Cinquanta / Sessanta del secolo scorso è un altro obiettivo polemico contro cui si scaglia Il signore delle formiche (e in certi interni, in certi rituali familiari, in certa violenza sottesa alle maniere pacate si scorge la suggestione di Bellocchio, tra i produttori del film). Com’è prevedibile, trattandosi di Amelio, il riferimento al passato vale come monito per il presente, in cui la violenza famigliare (e ne è simbolo impressionante l’elettroshock subito da Ettore, con il beneplacito dei familiari) non è affatto sparita, ma si è trasformata in forme più mediate ed ipocrite, senza cessare di premere ed incalzare.

Del resto, ed è forse uno delle più amare constatazioni del film, anche i progressisti, anche il partito di Sinistra per eccellenza, il PCI, che ha diretto tante lotte per i diritti dei lavoratori e la libertà dei popoli, cade vittima di quello stesso moralismo e provincialismo gretti, da cui tutta l’Italia sembra avvolta, e che trova la sua beffarda sintesi nel melodramma – Aida – rappresentato nel finale, mentre i giovani – i Sessantottini ? – se ne disinteressano, giocando a pallone. La colpa storica della Sinistra appare grave nell’opera di Amelio, proprio nell’ambito delle libertà individuali e nell’evoluzione della morale e del costume: la liberazione, lenta, verrà dal contributo di altri partiti e di altri movimenti d’opinione (esplicito il riferimento ai radicali, nel viso in primo piano di Emma Bonino). Gianni Amelio non è un regista facile, non lo è mai stato, non solo per la scelta dei problemi che tratta, che non consentono esiti consolatori, ma soprattutto per il rifiuto, tranne casi assai rari, della commozione e dell’empatia nei confronti dei suoi personaggi e del pubblico. Il linguaggio cinematografico appare altrettanto arduo e poco interessato al ritmo e alla suspense. Abbondano i dialoghi e le inquadrature fisse; rarissimi i movimenti di macchina; il ritmo risulta pacato e disteso, quasi lento, proprio per favorire la riflessione, non abbandonarsi all’emotività e chiamare in causa la propria coscienza. Una simile scelta di stile si deve necessariamente basare sulla performance degli attori, tutti molto bravi, a cominciare da Lo Cascio – Braibanti e da Elio Germano – Marcello, il giornalista che si batte con tutte le sue forze per la difesa dell’intellettuale imputato. Ma anche Leonardo Maltese, esordiente, offre una prova di grande intensità, assieme a tanti altri attori “per la prima volta sullo schermo”. Come Brecht insegnava, non si tratta di provare simpatia per le vittime, che possono anche apparire sgradevoli; si tratta di conoscere le loro ragioni, e di comprenderle, insieme alle storture di un sistema che occorre cambiare.

 

Vittorio Dornetti

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