Il Tarlo

7 Ottobre 2022

“ Precisione, puntualità, decoro e autocontrollo sono le quattro regole auree, i pilastri fondamentali del comportamento necessari non solo nel lavoro, questo va da sé, ma anche nella vita privata.” Così pontificava ex cathedra il ragionier Gualtiero Morin, capufficio contabile della Pietro Krizman S.p.A. – l’impresa di spedizioni triestina che da cento anni occupava una posizione importante nel settore – quando catechizzava i propri sottoposti. E aggiungeva: “ I dipendenti di
un’azienda con la nostra tradizione non possono permettersi figure meschine. In nessun caso.” E lui per primo si era sempre attenuto a tali principi con scrupolo e rigore nell’arco dei suoi quarantasette anni di vita. L’orologio – regolato ogni giorno con la radio – era uno degli strumenti indispensabili al suo modo di essere, così come l’aspetto sempre
inappuntabile: barba rasata con accuratezza, sfumatura dei capelli alta, camicie bianche o azzurro pallido con il colletto inamidato e cravatte molto serie sotto la grisaglia; anche nell’intimità domestica non concedeva nulla al disordine e alla rilassatezza. Dopo il ’68 aveva subìto di malavoglia i jeans e i maglioni con cui si presentava al lavoro qualche impiegato tra i più giovani. Se ne era lamentato col direttore generale, il capitano Bernardo Ulcigrai, un dirigente molto in gamba di un paio d’anni più giovane di lui, che aveva iniziato la propria carriera come ufficiale di bordo sui mercantili e di cui si
diceva che durante i cinque anni passati in mare avesse fatto più d’una volta il giro del mondo. Ulcigrai aveva capito in anticipo i cambiamenti inarrestabili del costume e cercava di ammorbidire con bonomìa i malumori del suo rigido subalterno.
“ No la stia a badar a ‘sti detagli Morin: la moda cambia… la fòrma no xè sostanza… l’affidabilità del personale e i buoni risultati di bilancio: xè quésti che cònta.”
Il ragioniere non rispondeva, scuoteva la testa e si rimetteva al parere del suo direttore, pur non condividendolo. Avrebbe desiderato che i dipendenti seguissero un’altra disciplina, un comportamento, per intenderci, più ‘milanese’ e accantonassero quel disincanto un po’ ironico e fatalista che lui interpretava come rilassatezza o sciatteria ed è invece un atteggiamento connaturale alla gente di mare e di frontiera: e tuttavia non ha nulla a che vedere con la serietà del lavoro svolto. Era del resto indicativo che lui, di proposito, non si esprimesse mai in dialetto triestino, al contrario dei suoi
genitori, che l’avevano sempre parlato, e dei colleghi d’ufficio – compreso Ulcigrai – che lo parlavano sempre. In pubblico Morin era un misogino, un single inossidabile: l’unica presenza femminile nel suo tran tran quodidiano era la Teresina – una segaligna zitella friulana assunta giovanissima quando i suoi genitori erano ancora vivi – che da un quarto di secolo gli faceva da domestica. Ma ciò non significava che non gli piacessero le donne, anzi… solo non lo dava a vedere. E così gli impiegati della ditta Krizman avevano presa l’abitudine – parafrasando il vecchio detto cicio no xè per barca – di chiamarlo Morin no xè per mule o, in maniera più colorita, no xè per mona; ma lo facevano dietro le spalle, stando ben attenti a non farsi sorprendere dall’interessato, perché lo sapevano permaloso e ne temevano le ritorsioni.

In realtà il ragionier Morin aveva una sua vita sessuale nascosta, scandita da una puntualità rigorosa. La prima esperienza l’aveva avuta a vent’anni quando il medico di famiglia – un massone anticlericale – l’aveva accompagnato in uno dei bordelli più su della città. Da allora non aveva mai mancato di riservare un’ora del suo tempo libero – e precisamente due volte al mese, in corrispondenza delle nuove ‘quindicine’ – a queste visite; lo faceva con grande riservatezza, che si trasformò in prudenza puntigliosa quando la senatrice Merlin fece chiudere le case e lui trasferì
questo tipo di interessi in una villetta del Collio adibita ad enoteca e gestita dalla Gabry, un’avvenente vinificatrice – presentatagli dallo stesso medico massone – che arrotondava i proventi della sua piccola vigna con un’altra attività, ben inteso molto selettiva e assolutamente ‘in proprio’. Morin, da diciassette anni, si presentava ogni quindici giorni e questa regolarità erotica che non modificava le sue abitudini, anche adesso che la Gabry aveva raggiunto la quarantina e l’enoteca andava a gonfie vele, continuava a riempire la sua vita: era uno dei pochi clienti rimasti di quell’attività
secondaria – ormai più che clienti erano due o tre vecchi amici ai quali la Gabry non sapeva dire di no – e senz’altro il più regolare e affezionato. Altre distrazioni non ne cercava e anche quando al circolo degli scacchi – vi si recava spesso dopo cena per il caffè e magari si concedeva una partitina – il cavalier Rubessa, un libertino impenitente e impomatato, cercava di tentarlo proponendogli una capatina dalla Irma, dove ghe ièra de spasarsela con dò s’ciavéte, lui declinava l’invito con cortesia e fermezza. “Figurarsi… dalla Irma! – borbottava tra sé e sé ’ – ‘ una casa clandestina… e ci mancherebbe solo l’irruzione della buoncostume… così tutti in prima pagina sul giornale… con tanto di nomi e cognomi… e magari le foto… ah no! non ci voglio nemmeno pensare.”

Anche quel martedì 11 novembre 1975 il ragionier Gualtiero Morin – classe 1928, fu Anselmo e fu Matilde Zorzenon – si alzò dal letto alle 6 e 45 in punto. Come ogni mattina spalancò la finestra della stanza che, dal quarto piano del vecchio e imponente condominio di via della Cereria, gli offriva – giù lungo le pendici della mammella di S. Giusto – la vista del
mare. Si affacciò e per una manciata di secondi restò a guardare fuori respirando a pieni polmoni. Il mare era di un grigio cupo e nella foschia autunnale, con la luce ancora scarsa, si confondeva con il cielo. Non era proprio una bella giornata, ma né l’umido né il freddo riuscivano a scoraggiarlo e solo in certi giorni di bora, essendovi costretto, si risolveva a malincuore a tenere le imposte ben serrate. Si dedicò, ancora in pigiama, ai dieci minuti di ginnastica a corpo libero
– la chiamava reazione fisica – senza la quale non riusciva a completare il proprio risveglio e, dopo essersi lavato e sbarbato, si vestì. Nel frattempo la Teresina gli aveva preparato la colazione che lui consumò come al solito leggendo il giornale. Sulla prima pagina del Piccolo campeggiava la notizia del trattato di Osimo. Lì per lì Morin registrò il fatto con una certa indifferenza, ma un tarlo microscopico, senza che se ne rendesse conto, gli si era insinuato nel cervello e col tempo non avrebbe mancato di farsi vivo. E infatti dopo un paio di settimane, in una pausa caffè, mentre alcuni impiegati parlavano di quell’avvenimento che si era conficcato in gola ai triestini come una spina di pesce avvelenata, Morin, pur non amando mescolarsi nelle discussioni dei dipendenti di grado inferiore al suo, non potè non ascoltare ed ebbe come un sussulto di memoria. Ricordò – non ci pensava più da molto tempo – che da bambino, e fino alla soglia della pubertà, andava al mare a Pirano, dove i genitori possedevano una casa, e vi passava l’estate: i suoi avevano ereditato quell’immobile da una zia rimasta vedova e senza figli, morta un paio d’anni prima che lui nascesse. La sera stessa disertò il circolo e, in preda a un turbamento ancora indistinto, rovistò nel ripostiglio delle vecchie cose in disuso – le conservava etichettate e in perfetto ordine, indifferente ai mugugni della Teresina che avrebbe voluto disfarsi di tante cianfrusaglie – e recuperò uno scatolone che, tra le altre, conteneva le fotografie di quelle vacanze ormai lontane.

La casa di Pirano era grande, circondata dal giardino e situata in una bella posizione non lontana dal faro: se i suoi genitori non l’avessero ereditata non avrebbero di certo mai potuto permettersela. I Morin stavano bene, ma non erano ricchi. Il padre geometra era un funzionario delle Generali e la madre aveva portato in dote l’appartamento di via della Cereria – dove lui viveva tutt’ora – e un negozietto di ferramenta che avevano poi venduto realizzando un utile discreto: pur non nuotando nell’oro, non potevano lamentarsi. Ma una villa del genere, se non gli fosse piovuta dal cielo, sarebbe stata fuori dalla loro portata. La mamma Matilde – una donna senza grilli per la testa e abituata ad amministrare con oculatezza – avrebbe voluto venderla subito; il papà Anselmo, invece, ci teneva moltissimo: il posto era incantevole e
soprattutto era convinto che quella proprietà gli conferisse prestigio, che fosse una sorta di promozione sociale; e così affrontava anche dei sacrifici pur di vederla sempre in perfetto stato di manutenzione. Ci avrebbe pensato la guerra a portargliela via… e gratis!

Nel ’45 i Morin erano sfollati da alcuni parenti nel Bellunese ed erano scampati alle violenze dei quaranta giorni; anche l’appartamento di via della Cereria era sfuggito al saccheggio delle soldataglie cetniche; ma la casa di Pirano era rimasta irrimediabilmente dall’altra parte. In un primo tempo, col trattato di pace del ’47, l’Anselmo Morin aveva cullato l’illusione che tutto andasse a buon fine: il cosiddetto ‘territorio libero di Trieste’ avrebbe dovuto comprendere tutto il golfo; ma in pochi anni si rese conto che la zona B sarebbe rimasta dov’era: “in mano a quei boia di comunisti… ròssi come il cul dele simie…”- e aggiungeva imprecando, quando si sfogava con la moglie – “ a quei s’ciavi maledeti…
invadenti, prepotenti… sacramenti!” La signora Matilde cercava in tutti i modi di calmarlo portandogli ad
esempio altri ben più sfortunati, ma non c’era verso.
“ Pensa a quei disgraziai del silos, Anselmo…”
“Lori i xè lori… e mi son mi!” era la sua massima espressione di solidarietà.

Era una beffa che Morin padre non era più riuscito a digerire: si era anche rivolto all’avvocato Sartirana, che avendo consumato intere risme di carta bollata gli era costato un occhio della testa; ma senza alcun risultato. Finché, all’inizio degli anni ’60, un infarto non se l’era portato via rabbioso più che mai. Pur nel dispiacere, per altro contenuto, il figlio – che non condivideva gli eccessi del padre, anzi se ne vergognava ritenendoli ‘poco dignitosi’ – aveva tirato un respiro di sollievo, pensando che l’emorragia di capitale sprecato in inutili scartoffie legali si era infine arrestata. Due anni dopo
morì anche la madre e la casa di Pirano cadde nel dimenticatoio. Passò il Natale del ’75 e passò anche la Pasqua del ’76. Morin, seppure piuttosto distrattamente, si ritrovava ogni tanto a pensare alla propria infanzia e alla casa di Pirano: il tarlo, intanto, continuava a lavorare sub limine, standosene acquattato fra le sinapsi senza che il suo ospite potesse
sospettarne la presenza.

A giugno di quello stesso anno il ragionier Morin decise di concedersi un piccolo anticipo di ferie. Erano quasi trentacinque anni – dall’inizio cioè della guerra – che non metteva più piede in Istria e prenotò una stanza per una settimana in un albergo di Punta Salvore. Si presentò alla frontiera jugoslava munito della prepusnica e passò il
confine con uno stato d’animo, per lui inconsueto, che oscillava tra una vaga inquietudine e un’eccitazione indefinibile; e siccome era di strada si ritrovò, quasi senza accorgersene, a Pirano, proprio di fronte alla sua vecchia casa. La riconobbe a stento tanto era l’abbandono: la facciata era ormai fatiscente; le imposte delle finestre inchiodate con assi di legno; il
giardino, del tutto incolto, invaso dagli sterpi e dalla gramigna e gli alberi ad alto fusto spariti. Dopo un primo spiacevole smarrimento prevalse una sorta di sollievo: quello stato di desolazione stava ad indicare che la casa non solo era vuota, ma forse la proprietà non era ancor stata assegnata. D’improvviso si stupì dei propri pensieri e volle subito allontanarli da sé concentrandosi sulla vacanza appena iniziata.

Quando rientrò al lavoro sembrò che quell’incontro memoriale non avesse lasciato traccia, almeno in apparenza. In realtà, dopo pochi mesi, il ricordo della casa di Pirano cominciò a ripresentarsi, ma per gradi: era come un fiume carsico, che di botto gli si affacciava alla mente per poi sprofondare di nuovo nel suo alveo nascosto e riaffiorava – ad intervalli vieppiù riavvicinati – portando ogni volta con sé un turbamento sempre più compatto, fino a diventare una vera e propria nostalgia da privazione. Il processo era stato lento; c’erano voluti alcuni anni durante i quali lui aveva ripetuto le sue visite alla casa: accertare il persistere delle condizioni di abbandono provvisorio, in un certo senso, lo rassicurava. Ma poi non bastò più. Infine si rivolse ad un legale.

L’avvocato Ulisse Centofanti aveva rilevato lo studio del vecchio Sartirana, da tempo ritiratosi, e con lui il ragionier Morin iniziò a ripercorrere la stessa strada, lastricata da innumerevoli petizioni, ricorsi e carte bollate, che aveva battuto suo padre molti anni prima. Non si accorgeva di essere incappato nella medesima ossessione, soltanto perché il suo rigido autocontrollo gli impediva le stesse esternazioni vistose e malgrado tutto riusciva a mantenere il rendimento consueto e un aplomb ineccepibile quando era in azienda. Intanto mentiva a se stesso. ‘ E’ tutt’altro’- si diceva – ‘ dalle buffonate di mio padre… lui si era messo anche a bere… in ultimo ci aveva rimesso il posto e acceso un’ipoteca sulla casa… e poi erano altri tempi. Io ho un’altra dignità… riconosciuta da tutti… e adesso il tentativo di recuperare ciò che è mio è ragionevole, anzi doveroso… il momento storico è completamente diverso.’ Il tarlo aveva lavorato con pazienza e ormai teneva saldamente la posizione.

La morte di Tito non fece che trascinare Morin ancor più a fondo nell’illusione. E il gioviale avvocato Centofanti, da parte sua, non faceva nulla per disilluderlo, anzi. Forse ne aveva intuita l’impossibilità, ma soprattutto si trovava per le mani un cliente che costava poca fatica e pagava puntualmente le sue parcelle. E poi, se per un imponderabile gioco del destino fosse riuscito a compiere il miracolo si sarebbe creato un precedente che avrebbe fatto rimbalzare il suo nome su tutti i giornali. Una pubblicità incredibile! Ma, ovviamente, il miracolo non avvenne. Il primo colpo davvero feroce piombò su Morin nell’ ‘83 quando, in uno dei suoi sopralluoghi periodici, vide che le imposte erano state schiodate e nel giardino, ripulito dalle sterpaglie, un’impresa di costruzioni stava montando la gru. In pochi mesi la casa ritrovò l’antico splendore e con esso risplendevano – sfacciatamente colorate, a offendere la vista del nostro ragioniere – le insegne al neon dell’Hotel Ristorante Eden. Per Morin era un paradiso irrimediabilmente perduto.

L’avvocato fu però abilissimo nel rincuorarlo, prospettandogli la possibilità di un risarcimento ancor più lucroso. E’ inutile dire che tutti i tentativi di recupero restavano lettera morta: insomma non si cavava un ragno dal buco, ma Centofanti riusciva sempre a trovare una buona giustificazione e qualche motivo di speranza per continuare. Così passavano i giorni; il sole lasciava il posto alla pioggia; veniva il gelo, soffiava la bora e il mare si infuriava; tornava la bonaccia, il sole scaldava le rive e i bagnanti affollavano il litorale di Barcola; le nuvole si rincorrevano veloci e con esse le stagioni e con le stagioni gli anni. Il ragionier Morin continuava imperterrito a lavorare con il solito impegno, tenendosi dentro un magone che non accennava a diminuire, anzi si faceva vieppiù soffocante. Ormai non frequentava quasi più il circolo degli scacchi, ma passava le serate davanti alle fotografie della casa perduta. Aveva chiuso anche con le visite alla Gabry e dedicava il tempo libero, fintanto che la luce del giorno glielo consentiva, a fissare col binocolo da marina la punta di Pirano, immobile sulla terrazza di Miramar, incurante del sole a picco o della pioggia battente.

In azienda il suo comportamento irreprensibile riusciva ancora a dissimulare i tormenti interiori, ma l’aspetto sempre più scavato tradiva un invecchiamento più rapido del normale. Nel ’91 aveva sessantatré anni e ne dimostrava almeno settanta. Nella primavera di quello stesso anno era stato assunto August Cernigoj – un bel giovane sloveno aspirante manager, orfano dei genitori – che si era brillantemente laureato in Economia e Commercio. Durante un master negli Stati Uniti, cui partecipava grazie a una borsa di studio, aveva conosciuto Luisa Krizman, figlia del dottor Eraldo Krizman, presidente dell’azienda e discendente diretto del fondatore. I due si erano innamorati e, rientrati in Italia, si erano subito sposati. Adesso Cernigoj, che aveva ottenuto la cittadinanza italiana, stava facendo esperienza nei vari reparti. Arrivò infine anche in contabilità, dove Morin avrebbe dovuto completarne la formazione in vista degli incarichi di vertice cui il giovane rampante era destinato. Gli altri impiegati ironizzavano sul cappello che Cernigoj aveva appeso al gancio sposando l’ereditiera e anche il ragionier Morin, pur dimostrando una disponibilità formalmente ineccepibile,
masticava amaro come non mai. ‘Figurarsi, far da balia a uno sloveno…’ – continuava a rimuginare – ‘a uno di quei banditi che mi hanno rubato la casa!’

Ai primi di settembre gli arrivò l’ultima mazzata: la più tremenda. Lo convocò il capitano Ulcigrai che gli comunicò la promozione a dirigente. Anche se dietro quel riconoscimento alla carriera non era difficile indovinare il fine del promoveatur ut amoveatur, sarebbe stata una buona notizia per chiunque si trovasse alle soglie della pensione: ma non
per lui. Con l’anno nuovo Cernigoj avrebbe preso il suo posto. “Caro Morin” – Ulcigrai lo sapeva attaccatissimo al suo lavoro e cercava di indorargli la pillola – “ le mancherebbero solo due anni alla pensione. L’azienda le è riconoscente e lo dimostra con una promozione non solamente di prestigio… ha predisposto per lei una gratifica congrua … oltre alla liquidazione dovuta, s’intende. E poi… ha l’aria un po’ stanca… ha sempre lavorato tanto… si godrà un riposo meritato… dedicherà più tempo ai suoi interessi. Anch’io fra un paio d’anni lascerò il posto… mi sostituirà il dottor Cernigoj… è già previsto…”

A Morin stava crollando il mondo addosso: non era una questione di soldi… senza l’appiglio che trovava nel lavoro, cosa gli sarebbe rimasto se non una solitudine grigia e quell’angoscia infinita? Ma fece buon viso a cattiva sorte appellandosi a tutto il suo autocontrollo; anzi, riuscì ad esprimere gratitudine per la generosità usatagli. Nei tre mesi che seguirono si sforzò di dimostrare al meglio le proprie capacità, guadagnandosi la stima di Cernigoj; ma il suo malessere e il suo rancore repressi precipitavano con un’accelerazione che lui riusciva a controllare a stento, con difficoltà e pena sempre più grandi. Il tarlo ormai non gli dava tregua: lo tormentava giorno e notte togliendogli il sonno, opprimendolo con pensieri foschi e minacciosi, inarrestabili come una valanga che gli stesse per esplodere dentro, senza però che all’esterno
trasparisse alcunché, se non i segni evidenti di un invecchiamento precoce… e dunque, si disse Ulcigrai, ‘la pensione gli arriva a fagiolo!’

Poco prima di Natale la direzione dell’azienda organizzò la solita cena per tutti i dipendenti e collaboratori; ma questa volta sarebbe stata in grande stile per dare un rilievo adeguato ai festeggiamenti del passaggio di consegne fra il ragionier Morin e il dottor Cernigoj: insomma una vera e propria kermesse. Morin suggerì ed ottenne che si cercasse il locale adatto appena di là del confine: la scelta assumeva un significato simbolico soprattutto per Cernigoj – il giovane delfino della famiglia Krizman – che avrebbe idealmente reso partecipe dei suoi successi anche la patria d’origine, divenuta da giugno nazione indipendente. Ulcigrai apprezzò molto il suggerimento e se ne stupì: non pensava che Morin si mettesse il cuore in pace tanto rapidamente e così bene… era un gesto di sensibilità insospettabile per lui… con l’età diventava persino creativo… Non fu quindi difficile a Morin indirizzare gli organizzatori anche sull’Hotel Ristorante Eden di Pirano, dove, avendovi già pranzato diverse volte, assicurava di essersi trovato più che soddisfatto sia della cucina che del servizio: l’azienda avrebbe fatto un’ottima figura. Dal canto suo il dottor Krizman aveva impartito l’ordine preciso di non lesinare su nulla: pesce, crostacei e vini, tutto doveva essere abbondante e di prima qualità, senza badare a spese. E in realtà fu una gran serata: ogni cosa si era svolta alla perfezione, al di là delle previsioni più rosee: una vera apoteosi, insomma, per Cernigoj e una parte di gloria anche per Morin.

All’uscita dal locale, ben dopo la mezzanotte, mentre tutti si avviavano chi al pullman aziendale, chi verso la propria macchina, Morin trattenne Cernigoj e si fermò davanti all’ingresso.

“ Vede dottore” – gli disse a bruciapelo – “ questa è la mia casa.” Cernigoj non capiva; pensò dapprima che l’altro avesse bevuto un po’ troppo. Ma l’espressione di Morin gli appariva, nella rigidezza innaturale, improvvisamente stravolta sotto la luce sfacciata dei neon multicolori. E il suo stupore divenne paura quando si accorse che il ragioniere aveva estratto la calibro 38 acquistata due mesi prima in un’armeria del centro. Cernigoj non fece in tempo ad emettere neppure una sillaba che Morin l’aveva freddato scaricandogli addosso tutti i sei colpi del tamburo.

“Crepa s’ciavo… e con ti tuti i s’ciavi de ‘sto mòndo!” urlò con una voce che lacerò l’aria ancor più dei colpi di revolver… e curiosamente si meravigliò non di quanto aveva fatto, ma di aver usato il dialetto di suo padre. Poi non disse altro.
Il tarlo aveva ottenuto il suo trionfo; ma non aveva più di che nutrirsi ed era anche la sua fine.

Cinque anni dopo il commissario Drago Loncar di Capodistria si trovò in visita a Trieste dal collega italiano Ingravallo, per concordare alcune operazioni di polizia riguardanti un traffico clandestino di armi attraverso il confine. Al termine dell’incontro Loncar, che a suo tempo aveva arrestato Morin e ne aveva seguito la pratica di estradizione, chiese a
Ingravallo che ne fosse stato di lui.
“ E’ sempre catatonico?” si informò.

“ No, adesso parla, ma in modo sconclusionato. Dopo due anni nel manicomio criminale di Aversa è tornato qui, in una casa famiglia. Non ha mai più nominato né il delitto né la casa di Pirano… nemmeno un accenno.”
“Non ha parenti ?”
“ Dei cugini di Belluno, che vengono una volta o due all’anno in attesa che muoia per spartirsi l’eredità.”
“ Qualcun altro va a trovarlo ?” si interessò Loncar dopo un attimo di perplessità.
“ Sì… Sì” – riprese Ingravallo – “ ho saputo che ci va tutti i giorni la sua vecchia domestica… e poi gli fa spesso visita l’ex direttore della ditta dove lavorava… il comandante Ulcigrai.”
“ E di cosa parla con loro?”
“ Ma… mi dicono che farnetica di fatture, bolle di carico, spedizioni di
merci… e nient’altro.”

 

Gianni Carotti

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