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Il tempo della Pergola

22 Settembre 2023

Carla era decisa: avrebbe sgomberato la cantina. Troppa roba si era accumulata e l’attendeva un altro trasloco. Quanti ne aveva già fatti? Aveva perso il conto. Occorreva decidere cosa tenere e cosa buttare, cosa regalare e cosa vendere. Impossibile continuare ad accatastare casse piene di roba dimenticata. Di alcuni scatoloni non ricordava neanche l’esistenza; all’esterno, non un accenno al contenuto, ma solo numeri, a indicare quanti pezzi di passato non avevano più diritto a un posto nel presente. 

Approdata in quell’appartamento un giorno in cui la nebbia pareva aver racchiuso la città in un’ampolla di fumo, le sembrò angusto e triste. Lei si definiva simile a una tillandsia: resistente, adattabile, senza radici. Una pianta dell’aria. E ne andava fiera. Si era stancata del caos delle grandi città, delle relazioni superficiali, di rincorrere il tempo. Nella folla, aveva iniziato a sentirsi sola e la solitudine le faceva paura; avvertiva il bisogno di stabilità. Le sarebbe piaciuto conoscere a fondo usi e abitanti di un luogo e apprezzarne i piatti tipici; vedere i bambini, oggi all’asilo, un domani andare a scuola da soli in bicicletta; imparare la data della festa del santo patrono; avere quelle attenzioni che fanno sentire di essere parte di una comunità riconosciuta: il panettiere che dà del tu, l’addetto dell’ufficio postale che non chiede il documento d’identità, la vicina che si offre di innaffiare le piante. Però non si era mai fermata in un posto abbastanza a lungo da sentirsi una di loro. 

Era stata questa stanchezza – e un certo sconforto immotivato – a convincerla a fermarsi in quella cittadina della pianura padana dalle aiuole regolarmente innaffiate, i cestini puntualmente svuotati, le stesse facce ogni giorno incrociate alla stessa ora. Ci stava ormai da dodici anni e si angosciava adesso all’idea di fare ancora un trasloco – anche se si sarebbe spostata solo di un paio d’isolati – perché nel frattempo una nuova paura, subdola e inquietante, si era impadronita di lei e aveva trasformato il vivere quotidiano in una perenne angoscia: bastava un sorpasso per vedere il camion lungo la corsia opposta piombare su di lei; passava accanto a un cassonetto e s’immaginava spostata dall’onda d’urto di un’esplosione; attraversava il ponte di ferro e il ricordo del crollo del ponte Morandi le toglieva il respiro. 

Da un cartone rovinato dall’umidità prese un libro degno del macero. Una foto cadde sul pavimento. Ci soffiò sopra e la osservò: una bimba dal sorriso sdentato, il cappellino di cotone bianco legato sotto il mento, la vestina a fiori corta, le gambe paffute un po’ storte e le braccia protese in avanti, a scostare l’erba alta quanto lei. 

Si riconobbe, poteva avere un anno. Riconobbe il prato davanti al fienile. Riconobbe la casa dei nonni, la Pergola.

Vecchi tempi, pensò facendo spallucce; mise da parte la fotografia e lanciò il libro nel mucchio della carta da buttare. Nel gesto caddero altre foto incastrate tra le pagine. Le raccolse: la Pergola prima della ristrutturazione, come non la ricordava più. Il papà con le basette lunghe e i pantaloni a zampa d’elefante. Il nonno con la carriola piena di legna. La mamma che allatta: la camicia da notte ricamata e la propria faccina contro una tetta spropositata. 

La memoria traboccò come schiuma di birra appena tolto il tappo. 

Alla Pergola ci andavano d’estate, quando il caldo in città era insopportabile e la domenica si apparecchiava la tavola nello spiazzo oltre l’aia, all’ombra degli alberi di fico. La nonna le insegnava a fare le torte e i centrini all’uncinetto. Ci andavano anche d’inverno, e il freddo odorava di muschio e castagne, il camino arrossava le guance, il fumo impregnava i vestiti e, nel silenzio delle sere, lei disegnava cuori sui vetri appannati. Le stelle sembrava potessero prendersi allungando il braccio. «Lì c’è la mamma» diceva il papà indicando la più luminosa. 

Poi ammattonarono parte dell’aia e fu costruito un portico. Il nonno era morto e il papà sempre in viaggio. Le galline non razzolavano più e i fichi cadevano a decine, mangiati dagli uccelli. Niente era più lo stesso. Solo la tovaglia a quadri bianchi e gialli era sempre quella, rammendata qui e là perché “il cotone è buono”. Cotone di una volta…

L’ultimo inverno l’acquisto di una stufa elettrica non era stato sufficiente e lei non scriveva più sui vetri. La nonna era solita sferruzzare in cucina, seduta accanto alla finestra, ma non aveva pace. Si alzava – i ferri sempre in mano – e s’incamminava, gli occhi sgranati, in cerca di chissà che cosa; usciva al vento, si aggirava, quindi tornava a sedere accanto alla finestra. Il gomitolo, imprigionato dentro la cesta, roteando su se stesso si disfaceva, e il filo seguiva la nonna come un cane fedele. Carla lasciava fare. Sapeva dove trovarla: bastava seguire il filo di lana. Se questo s’impigliava in qualche rovo o in uno spuntone di muro, lo liberava e lo riavvolgeva, mentre la nonna attendeva scuotendo la testa, in un gesto di rassegnazione. 

In fondo al cartone un’altra fotografia: il fienile, prima che diventasse veranda. “Ti abbiamo concepito qui” le aveva detto il papà mostrandogliela, con malcelato imbarazzo. 

Gli occhi le si arrossarono. Tirò su col naso: maledetta polvere… 

L’ultima estate lo scirocco aveva raggiunto anche la Pergola, ma si stava bene nel fienile e Carla quel giorno leggeva “Il buio oltre la siepe”. Presa dal romanzo aveva saltato la merenda, poi si era alzata per un bicchiere d’acqua fresca. Il filo di lana rossa usciva dalla porta e attraversava il portico. Carla non l’aveva notato. La nonna non era in casa; Carla aveva seguito il filo, era tornata nel portico, aveva superato l’aia e girato l’angolo del capanno degli attrezzi, che un tempo era il pollaio. Il filo proseguiva verso il viale di accesso, arrivava alla strada, l’attraversava e, lungo uno stretto sentiero, raggiungeva una panchina di legno, tra due eucalipti. L’aveva trovata poco oltre, gli occhi aperti verso il sole ancora alto, i ferri abbracciati al petto. Una formica le camminava sulla mano.  

I ricordi repressi troppo a lungo la travolsero. Aveva ereditato dal padre l’incapacità di fermarsi e mettere radici?  Forse. O forse l’insoddisfazione e le sue paure erano solo una reazione al continuo soffocare un dolore interno, pulsante come una mola cariata…

Il fienile dove i suoi genitori si erano amati, dove le piaceva rifugiarsi, sembrava chiamarla. Doveva tornare al nido dei suoi affetti, all’origine delle sue emozioni, lì dove era stata concepita, nel solo posto che l’aveva vista davvero felice, l’unico che mai avesse considerato casa, l’unico dove avrebbe potuto sentirsi di nuovo bene. Solo lì – ne era certa – avrebbe ritrovato serenità e superato il dolore. Come non essersene resa conto prima? 

Abbracciò le foto bagnate di lacrime e se le asciugò addosso, cullandole come fossero un neonato.

«Torno alla Pergola» si disse. Gli oltre mille chilometri non la spaventavano. Conosceva la strada.

Non aprì altri cartoni quel giorno, ma solo mesi dopo, quando il fienile divenne la sua biblioteca.

 

Licia Tumminello

3 risposte

  1. I tuoi racconti sono sempre densi di sentimento e toccano il cuore di chi conserva i ricordi più belli e commoventi della vita; le parole scorrono con uno stile semplice, limpido ed incisivo .
    Complimenti e grazie.

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