L’agricoltore, il caffè e la Lancia Augusta

1 Aprile 2022

Verso la metà degli anni Trenta del secolo scorso, all’interno delle cascine, strutture agricole tipiche della Pianura Padana, il padrone esercitava verso i contadini suoi dipendenti una sorta di alta e bassa giustizia e le sue decisioni erano inappellabili e venivano rispettate come leggi scritte. Queste solide costruzioni erano formate da un perimetro di mura robuste chiuso da un cancello di ferro o da un portone di legno massiccio. Ospitavano le famiglie dei coloni, i cavalli, i buoi da tiro, le mucche da latte, le galline, le oche, i tacchini, gli attrezzi agricoli e i carri per il trasporto dei raccolti. In altri appositi spazi venivano ammassati e conservati i prodotti per l’alimentazione invernale degli animali. Queste imponenti costruzioni avevano un’aria severa, con ai lati le povere case dei contadini mentre al centro, la casa padronale, ergendosi maestosa, simboleggiava il potere. Ogni cascina aveva una denominazione, il cui significato originario si era perduto nella notte dei tempi: spesso si riferiva alle caratteristiche morfologiche del luogo, ma poteva anche derivare da un concetto astratto. Pronunciando Acqualunga, Casina, Inferno o Prato, nessuno pensava a un corso d’acqua, a una piccola casa, al regno di Satana o a una distesa di verde. Il nome era soltanto una specie di toponimo sganciato da un qualsiasi significato.

Il padrone, che incuteva soggezione, aveva un grado di autorevolezza proporzionale all’estensione del terreno di sua proprietà. Come nel Medioevo, ma nel 1935, l’agricoltore latifondista trattava i contadini come servi della gleba. Nessuno osava mettere in dubbio decisioni, da cui dipendeva il loro futuro e quello delle loro famiglie.

L’11 novembre, San Martino, di ogni anno, infatti, era facoltà del padrone assumere o licenziare i braccianti, non solo senza giusta causa ma anche senza alcuna spiegazione. Bastava che egli ingiungesse al contadino di lasciare libera la casa e quello doveva cercarsi una nuova sistemazione. E nella cascina si vedevano volti nuovi di contadini, di mogli e di bambini, ma il giorno dopo la vita riprendeva con il consueto ritmo dettato dai tempi lenti dell’agricoltura. Il nuovo assunto si recava a lavorare nei campi, la moglie svolgeva l’attività di casalinga, i figli andavano e tornavano da scuola a piedi e il padrone si aggirava per la cascina valutando situazioni e decidendo i lavori da eseguire. Poi si recava in città, dove vendeva i prodotti della terra, acquistava sementi e nuovi attrezzi e alla fine si fermava nel solito bar per scambi di idee con altri proprietari terrieri. Così passava la giornata anche il signor Achille, un grosso proprietario terriero di una cinquantina d’anni, a cui era toccata in eredità una proprietà di quasi mille pertiche. Frequentato il liceo classico e ottenuta la laurea in Agraria, aveva sposato una cugina per non disperdere il patrimonio di famiglia.

Una mattina di fine novembre, mentre passava vicino alle case dei contadini per verificare cosa stesse accadendo nella stalla dove risuonavano insoliti muggiti, fu attirato da una imprecisata massa scura che sporgeva appena dalla porta aperta dell’ultima abitazione. Mentre si avvicinava, l’occhio, non più ingannato dalla distanza, andava distinguendo dolci pendii e rotondità attraenti che prima non aveva messo a fuoco. Era la moglie del nuovo contadino, che, con le ginocchia piegate a terra, arretrava lentamente dalla porta aperta mentre passava lo straccio sul pavimento di mattoni. La donna si rialzò per niente sorpresa dall’improvvisa presenza. Salutato con sudditanza il padrone, lo invitò in casa per un caffè. Sulla quarantina, dalla costituzione tipica della donna padana dell’epoca, con cosce forti e sedere robusto, aveva il viso solcato da rughe ma con lineamenti regolari, occhi marroni e capelli neri raccolti dietro la nuca.

Varcata la soglia, il signor Achille preferì restare in piedi, ma quando la donna si piegò in avanti per cercare nella credenza le tazzine migliori, lui, da dietro, le passò un braccio intorno alla vita e con l’altra mano si fece strada tra gli indumenti intimi, senza che lei opponesse resistenza. Raggiunto l’obiettivo, in pochi istanti concitati ebbe fine l’impeto a cui si era sentito autorizzato dalla consuetudine, come per una sorta di ius primae noctis. Ricomponendosi, la donna continuò a preparare il caffè che fu bevuto in silenzio, come se nulla fosse accaduto. Poi, come ogni giorno, il signor Achille si mise al volante della Lancia Augusta e si diresse al mercato in città. Con la stessa macchina, nove mesi dopo, partecipò al battesimo del figlio del nuovo contadino.

 

Sperangelo Bandera

2 risposte

  1. Bravo Sperangelo per il bel racconto….sicuramente chissà quante Auguste da allora hanno festeggiato il battesimo dopo una pulita di pavimento ed un caffè….Oggi come ieri tutto procede nello stesso modo…solo che anziché la Lancia Augusta il sig. Achille viaggia con le top car raccontate da Autocapital.

  2. SPERANGELO, in parecchi avranno capito chi era “el PADROON”, ma è gradevolissimo il solito malinconico racconto che ci hai proposto e te ne sono sicuramente molto grato, come sempre.
    Ciao coetaneo !!!🤗🤣🍾

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *