Festa dell’Occidente: meglio riflettere, fermare la deriva e ricostruire

30 Ottobre 2023

GLI EDITORIALI DI ADA FERRARI

Abbinare alla tradizionale festa delle Forze Armate del 4 novembre una festa dell’Occidente nuova di zecca?  La proposta è di Matteo Salvini. E nulla vieta di darle corso a due condizioni. Primo: che non sia ulteriore benzina gettata sul fuoco di indesiderabili scontri di civiltà. Secondo: che chi brinderà  alla nostra blasonata civiltà non sia tanto incauto da sorvolare sulla malinconica profezia racchiusa nel nome latino. Occidente: terra dove tramonta il sole. E che il nostro tramonto sia ormai pericolosamente avanzato non è un punto di vista  ma una clamorosa evidenza. Male non fa qualche riflessione  sulle ragioni storiche dell’ “orgoglio” occidentale che, nel suo più celebre e discusso libro, Oriana Fallaci accostò alle ragioni della “rabbia”. E come partire se non da quel valore libertà che, pur fra contraddizioni e tragici scivoloni, è stato fin dagli albori della nostra civiltà elemento portante di una diffusa coscienza identitaria. Già prima di Alessandro Magno qualunque greco colto, interrogato circa le differenze fra la sua civiltà e quella asiatica avrebbe orgogliosamente risposto: le nostre istituzioni politiche sono animate da spirito di libertà, in Oriente invece domina la tirannide. Ma è pur vero che se l’anelito costante alla libertà di idee, individui, istituzioni ed economie è stato stella polare dell’Occidente, il suo smalto appare oggi oscurato da imbarazzanti processi degenerativi.

Per identità di genere, non posso che cominciare dalla silenziosa mattanza di donne massacrate da padri, mariti, fidanzati e partner occasionali solo per aver osato qualche sacrosanta libertà. I numeri del fenomeno sono tali da far tremare dalle fondamenta la coscienza dell’intero sistema. Né ci giova ovviamente essere oggetto dell’incontrollato assalto migratorio di popoli e culture che in tema di diritti femminili sono fermi allo stadio del più ripugnante oscurantismo.

Osservazioni analoghe merita il tema della libertà di coscienza e di culto, da tempo pervenuta a definitiva separazione fra fede e politica e alla conseguente laicità delle istituzioni. Preziosi traguardi messi a rischio da quel che il liberale e garantista Occidente da troppi anni si cova in seno: dai focolai di radicalismo integralista islamico fino alle nostranissime piazze europee che, giusto in questi giorni, inneggiando ad Hamas, ciecamente sposano la via del ritorno alle guerre di religione e alla conseguente cancellazione fisica dell’infedele. Un ‘indietro tutta’ di inquietanti e inattese proporzioni che molto fa riflettere specie per l’ampiezza degli apparenti consensi. Che qualche  giudice arrivi a negare al sistema il diritto d’adottare le misure cautelari necessarie a tutelare la sicurezza collettiva la dice lunga circa la saldatura ormai raggiunta fra settori del potere giudiziario e ‘cupio dissolvi’ dell’Occidente.

Una terza e ultima considerazione non può che riguardare in fine quel tema tipicamente identitario e occidentale che è il lavoro, luogo centrale della celebre Regola di Benedetto da Norcia, che non a caso  l’Europa ha idealmente assunto a suo padre e patrono. Proprio il lavoro fu al centro, nel secondo dopoguerra, di quel vasto ripensamento del rapporto fra capitalismo industriale e democrazia che impegnò l’Occidente, e l’Italia in particolare, negli anni della ricostruzione e della grande espansione economica. Abbiamo scelto di riconoscerci e farci riconoscere come ‘area del libero mercato’ fondato sull’inscindibile legame fra libertà economica e libertà politica.  Il lavoro, in quegli anni dominati dal tema della modernizzazione e delle riforme, fu al centro di una riflessione interdisciplinare di straordinaria e irripetibile ampiezza: partiti, sindacati, intellettuali, Chiesa, imprenditori, sociologici, economisti, antropologi… L’ambizioso orizzonte era quello di una grande democrazia industriale e produttiva in cui il senso della fatica umana avrebbe finalmente trasceso il significato più ovvio e immediato di profitto per l’imprenditore e di salario per l’operaio.  Si cominciava a pensare il lavoro anche come luogo e mezzo di quella realizzazione personale e identitaria che oggi  – in sistemi  drammaticamente deindustrializzati – si  è ludicamente trasferita nello sterminato parco giochi dei social e del famoso ‘tempo libero’.  Tant’è che all’ordine del giorno dell’agenda politica e sociale non ci sono  antiche e grandi cose  come compartecipazione operaia agli utili aziendali o ipotesi di una nuova alleanza fra capitale e lavoro fondata su condivisione di responsabilità e vantaggi, ma tipici temi da ‘vacche magre’ come reddito di cittadinanza e salario minimo. Evidente, fra i molteplici responsabili del processo, il ruolo di una globalizzazione che, ridisegnato il mercato su scala planetaria, è ormai in grado di garantire a un capitalismo sregolato e selvaggio risorse illimitate di forza lavoro precarizzata e sottopagata.  “Il futuro è dei disoccupati”: suona così l’ultima provocazione del sociologo De Masi, da poco scomparso. Disoccupati: nuovi sudditi pure loro che, come percettori di sussidi di stato, rinunciano a quote di indipendenza personale, barattandola col vincolo clientelare a questo o quel soggetto politico. E se, in un’Italia dal falcidiato tessuto produttivo, la politica si riduce a promessa o illusione assistenziale, lunga vita ai Giuseppe Conte di ieri, oggi e domani.

E’ di fatto rottamato il meccanismo che in passato teneva in sicurezza il tessuto sociale attraverso il virtuoso circuito di occupazione, reddito, risparmio, accesso alla proprietà privata e, con essa, a quell’indipendenza economica che è garante di ogni altra libertà.

Proletarizzazione del ceto medio, crisi di ruolo morale e progettuale di borghesie e classi dirigenti: questi i mali profondi della nostra civiltà che non può illudersi di vivere di eterna rendita onorifica solo per avere a suo tempo inventato ed esportato il prezioso bene della modernità. 

Più che ragioni per festeggiare, come Salvini propone, si direbbe dunque che l’Occidente ha in questo momento stringenti ragioni per riflettere e ricostruire. O ritrova in sé le risorse morali e strategiche necessarie a frenare la deriva o non sarà che un declassato ex Occidente, marginale area della nuova geopolitica e futura periferia del mondo e della storia.  

 

Ada Ferrari

3 risposte

  1. Speriamo che vengano ritrovate “le risorse morali e strategiche per frenare la deriva…” anche se sono poco fiducioso.

  2. Forse il solo modo di fermare la deriva, e ricostruire sarebbe riflettere, ma non sull’occidente e sulla competizione di civiltà. Propongo un oggetto più limitato e pertinente: i dati oggettivi della crisi. La libertà individuale come obbiettivo da raggiungere attraverso una lotta tenace contro il potere tirannico e la sua inestinguibile forza di sopravvivenza e sopraffazione. Lotta che é storicamente segnata da progressi ottenuti a caro prezzo e regressi disastrosi e terribili per il cedimento dei più deboli. restringendo la memoria storica agli ultimi tre secoli dopo che l’illuminismo ha lanciato il progetto di forme di governo basate sulla separazione dei poteri e sulla limitazione nei tempi di detenzione degli stessi.

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