Tutte le volte che non l’ho pensato

17 Febbraio 2023

  Il parcheggio del supermercato ha un nuovo look e sfoggia quattro posti auto di un rosa acceso che cattura lo sguardo, neanche fosse una bordura di buganvillea.  Vicini all’ingresso principale, vuoti, verniciati di fresco, sono destinati alle donne in gravidanza o con bambini piccoli. 

   Elisa passa oltre. Sarò mamma… oppure no? si domanda mentre cerca uno stallo libero. Impresa ardua, al sabato mattina. E risposta impossibile.

   Vent’anni fa questa domanda non se l’era posta. Chiamata per sostituire un’insegnante in maternità, aveva accettato l’incarico – mille chilometri lontano dalla famiglia che iniziava a starle un po’ stretta – ed era approdata in una cittadina della pianura padana che, sino a una settimana prima, neanche sapeva esistesse. 

Fu accolta da un centro storico elegante, col Duomo dalla facciata imponente posto nel mezzo di una piazza dal sapore antico, dove gli uomini al mattino parlavano d’affari mentre le donne facevano la spesa al vicino mercato.

Fu accolta da un dialetto incomprensibile, parlato ovunque, non come nella sua città dove le ere stato insegnato di evitarlo, quasi fosse vergognoso stigma di provenienza. 

Fu accolta con tiepida simpatia da tutti. Anche dal preside.

«Non mi farà un figlio pure lei» fu la frase che le rivolse tendendo la mano.

Uscita infelice, ma Elisa non ne colse il significato, intenta com’era a far bella figura di sé elencando la laurea, il tirocinio, il master, la breve esperienza come segretaria presso uno studio notarile, e – a specifica richiesta – l’essere libera da legami sentimentali.

Neanche quattro anni dopo la domanda l’aveva sfiorata, quando Marco le propose di vivere insieme. Accettò, e nell’euforia dei primi tempi di convivenza quella domanda, se per caso le si affacciava alla mente – leggera e improvvisa come una nuvola estiva –, era subito rimossa. 

Non è il momento. 

Elisa, in quel periodo in cui la vita le sembrava ricca di opportunità da vivere tutte e subito, di occasioni da prendere ora o mai più, cercò persino di evitare “il problema”. Aveva lasciato l’insegnamento per un promettente ruolo presso una grossa azienda, e non intendeva ostacolare la prospettiva di sicuri sviluppi né rinunciare alle proprie ambizioni.

   C’è tempo, per i figli.

   E poi, lei e Marco si amavano tanto e lavoravano molto, anche se litigavano troppo. 

   «L’amore non è bello se non è litigarello» canticchiava sua madre. «Te lo sposi, ci fai un figlio, e vedi come cambia». Elisa non raccoglieva il consiglio: troppo rischioso. E continuava a non porsela, la domanda, ma s’infastidiva tutte le volte che la mamma, velatamente, le suggeriva di “spicciarsi”. «Il tempo vola.»

   Impossibile da credere, quando si hanno tante stagioni davanti e una carriera appena iniziata.

   Una prima parziale risposta – alla domanda che non si era mai posta – se la diede quando Marco, andando via di casa sbattendo la porta, fece tremare i vetri e ridusse in frantumi le sue certezze. Quando, emersa dal mare di lacrime, con un briciolo di raziocinio riuscì a pensare: meno male, non abbiamo figli. Quando, tornatole alla mente un dolore che aveva rimosso, si disse: meno male anche per l’aborto. Nemmeno quella volta si era posta la domanda, e come fosse successo non se lo spiegava, e ricordò che s’era anche affezionata all’idea di diventare mamma, al punto che aveva sofferto per com’era finita. «Vuol dire che non era destino» l’aveva consolata Marco. 

   Meno male. Meglio così.

   Elisa, distratta dai suoi pensieri, spinge il carrello e guarda i banchi di frutta e verdura. Cerca di ricordare quanto scritto nella lista dimenticata. Patate, banane, zucchine… Qualche pomodoro.

   Va avanti, si ferma alla terza corsia. Osserva gli omogeneizzati. Si usano ancora? Ecco a destra i giochi per bambini, i carillon, i peluche.  A sinistra pannolini e salviette, ciucci e bavaglini. Toh, i libri di gomma!  Le inventano tutte…

   Ne prende uno in mano: è soffice e odora di talco. 

   Una signora, con una bimba sul seggiolino del carrello, la osserva: «Sono belli, vero?»

   «Non li avevo mai notati.»

   «Galleggiano, lo sa? Mia figlia ha tutta la collezione, glieli consiglio.»

   «Sì, sono proprio carini.»

   «Quanti mesi ha il suo bambino?»

   Elisa arrossisce e sgrana gli occhi. Ho l’aspetto di una mamma? Pensa. Decide di mentire. «Dieci.»

   «È un maschio, vero?»

   «Sì…»

   «Indovino sempre!» dice entusiasta la sconosciuta. «Lo prenda, vedrà come gli piacerà» e si allontana sorridente, accennando un saluto con la mano. 

   Elisa, imbarazzata, si rigira quell’oggetto tra le mani. Lo annusa, ne prende altri due. Sono belli, coloratissimi. Teneri. Già li vede, tra le manine grassocce che li portano alla bocca. Decide di comprarli. Li avrebbe regalati: tra i tanti figli di amici che la chiamano zia, non ha che l’imbarazzo della scelta. O magari li avrebbe tenuti.

    Pur continuando a non porsi la domanda, era diventata mamma di Perla, che non metteva il muso, l’accoglieva scodinzolando anche se faceva tardi e non sbatteva le porte.

   Entrata nella sua vita per caso – o per un’inconfessata necessità – Perla aveva sostituito Marco e addomesticato la nostalgia; le aveva insegnato la pazienza, la dedizione, il non chiedere nulla in cambio se non l’essenziale: due coccole e una ciotola di croccantini. Le aveva fatto comprendere quanto bisogno di dare ci fosse in lei, e coperto un vuoto che era di persone e di scopi, di affetto e d’impegno, di sogni e di preoccupazioni. 

   Perla aveva contribuito a seppellire la domanda che non aveva più ragione di porsi.

   Ma il quesito, con l’aggiunta di un avverbio, entrò – improvviso come lo scoppio di un palloncino durante una festa di compleanno – il giorno in cui Perla finì sotto una macchina e il dolore dell’abbandono, sopito sino a essere dimenticato, improvvisamente tornò più forte che mai, e le strappò il sonno, e la solitudine riprese a graffiarle il cuore. 

   Sarò MAI una mamma?

   Elisa evita la corsia dei prodotti per animali. Il carrello è semivuoto, come la sua testa. 

   A seguito di quel lutto aveva partorito un’idea balorda e deciso di realizzarla, affinché non restasse un rimpianto. Le assorbe a tal punto la mente da non riconoscersi più: si perde, è distratta, sogna, s’incanta, s’innervosisce. Fantastica. In certi momenti è tentata di rinunciare, in altri vorrebbe che tutto fosse già definito. Nervosa vaga tra passeggini, porta enfant, seggioloni, lettini con la sponda, necessario per il bagnetto, in preda a un’instabilità logorante: osserva i prezzi, inforca le lenti, passa oltre, torna indietro. 

   Strana questa sua frenesia, perché la domanda non era mai stata per lei un assillo, né un drammatico dilemma. Semplicemente un rimando, in attesa di tempi migliori. Anche dopo aver perso il figlio, non era stata sfiorata dal dubbio che, quando il tempo sarebbe stato “quello giusto”, avrebbe potuto avere difficoltà o, peggio, ritrovarsi sola.  

   Il “momento giusto” è ormai passato, e la domanda è diventata un pensiero fisso: sarò mamma… oppure no? 

   Vorrebbe poter cancellare la negazione: le fa paura. 

   Nei momenti di sconforto sempre più frequenti si rivede ragazzina timida, con la fascia sulle orecchie a sventola ma caparbia e intelligente, e si domanda che fine abbia fatto la donna che – controvento, sulla spiaggia – avanzava risoluta, incurante della sabbia negli occhi. Vorrebbe ritrovare quella determinazione, per non darla vinta a chi la guarda e scuote il capo, alza le spalle e allarga le braccia; per smentire chi le dice: toglitelo dalla testa, non hai più l’età.

   La vetrina del bar interno al supermercato, addobbata con cioccolatini e fiori finti per ricordare che a giorni è la festa della mamma, le rimanda un’immagine di sé che non le piace.

   Elisa si dirige alla cassa. Dai tempo al tempo, si ripete, ma il mantra serve a poco. Trattiene le lacrime che le bruciano gli occhi.  

   «Non è facile» le aveva detto l’assistente sociale. 

   «Dovrà essere forte» le aveva detto la psicologa.

   «Sei pazza» le aveva detto sua madre..

   All’uscita getta un’occhiata malevola ai parcheggi rosa: un’auto campeggia solitaria, ostentando un adesivo indicante un bimbo a bordo e un seggiolino sul sedile posteriore. Nel passarle accanto, con la chiave nascosta tra le dita, incide un’oscena linea bianca lungo tutto il bordo destro della vettura.

   Seduta per terra, accanto ai carrelli, un’extracomunitaria chiede l’elemosina; sul gonnellone aperto a ventaglio un neonato dorme pacifico. Elisa evita di incrociare quegli occhi che si fanno preghiera, schiva la mano che si tende verso di lei, posa il carrello e si avvia alla macchina. 

   Suona il cellulare, prefisso di Brescia:

   «Dottoressa Lombardo, il tribunale ha firmato il decreto di affidamento preadottivo. Dalla notifica decorreranno dieci giorni…» 

   Elisa non ascolta oltre, si raddrizza, il viso le s’illumina. È la risposta che attendeva, che esclude la negazione, che risolve l’assillo. Finalmente.

   Torna sui propri passi, raggiunge l’area carrelli e lascia cadere una banconota da cinque euro nella mano della mendicante. Guarda lo sfregio sull’auto parcheggiata e – imprevista – una nuova domanda le si affaccia alla mente. Timida all’inizio, in un attimo come una valanga s’ingrandisce e diventa un dubbio atroce: sarò una BUONA mamma?

 

Licia Tumminello

 

9 risposte

  1. Come sempre scrittura semplice incisiva descrittiva accattivante che incuriosisce e ti porta a volere conoscere la fine….BRAVA!👏👏👏

  2. Un racconto che si legge d’un fiato, scorrevole, accattivante, ti costringe a pensare a chi, magari al contrario di te, non ha un figlio, non ha potuto realizzare qualcosa che, di fatto, è nella natura umana.
    Un grazie all’autrice che ha saputo offrirci un interessante argomento di riflessione.

  3. Bravissima come sempre. In poche righe sei riuscita a descrivere i desideri e i tormenti di una giovane donna.

  4. Racconto scorrevole, che si legge piacevolmente. Velato da una punta di amarezza e malinconia, è comunque aperto alla vita. Complimenti Licia.

  5. I racconti di Licia Tumminello vanno sempre a toccare il cuore. E fanno riflettere. Quale madre non si chiede: ‘ Sono una brava madre? Sono stata una brava madre?’ . Non si impara ad essere madre se non sulla pelle dei figli, e non si è mai imparato abbastanza. Quello che ha funzionato per uno magari non funziona per un altro. È l’amore che guida e che non sempre è sufficiente per fare scelte giuste. E se qualcosa non va per il verso desiderato di nuovo ci si interroga e ci si sente in colpa: per aver sbagliato o per non avere fatto abbastanza. Non è facile, ma la maternità è un’esperienza senza pari. Diversa da ogni altra.

  6. Mi piace sempre il nitore della tua prosa e soprattutto la precisione con cui descrivi i pensieri e le emozioni dei tuoi personaggi.
    È sempre un piacere cara Licia 🎈.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *