Un figlio autistico e un libro per sublimare dolore e rabbia

11 Marzo 2023

Creare dalla triste, dolorosa esperienza autobiografica, una storia che entri non tanto nella mente quanto nel cuore di tutti, è l’ambizioso progetto dello scrittore romano Daniele Mencarelli, nel suo libro “Fame d’aria”. Perché “le storie devono essere di tutti, anche di chi non le ha mai sperimentate”. Da “sentinella del presente”, a “vegliare i viventi”, ci introduce in una realtà con cui pochi si confrontano da genitori, per fortuna, quella dell’animo provato, devastato, sottoposto a prove estreme di un padre rispetto alla disabilità precoce di un figlio.

Pietro, il padre di Jacopo, “vive all’inferno”. “I genitori dei figli sani non ne sanno niente; non sanno che la normalità è una lotteria!”. Pertanto l’imprevisto può capitare a chiunque e condizionare pesantemente il destino di un figlio, spesso irreversibilmente. E’ quello che è successo a Jacopo, poco dopo la nascita. Quell’evento atteso con tanta felicità, si trasformò ben presto in un incubo per i suoi genitori, al momento della diagnosi. Una grave forma di autismo, poco o nulla funzionante. Il mondo sembra crollare dentro e attorno alle persone che subiscono l’evento. I pensieri si disperdono, le energie pure, si consumano pian piano, è un logorio continuo. Pietro di energie non ne ha più, “non vede nulla avanti a sè” che non sia Jacopo e la sua dannata “malattia”; non ascolta altro che non sia quel “mmm, l’unico suono che il figlio è in grado di emettere”, quando decide di mettersi in viaggio con lui per raggiungere la moglie al mare e lì “festeggiare” la ricorrenza del loro matrimonio, da cui tutto ebbe inizio. Ma la macchina ha un guasto e pertanto padre e figlio son costretti a fermarsi in un paesino tanto bello quanto dimenticato dal tempo, dove però vive un’umanità che sembra scomparsa altrove, e che permette a Pietro di riscoprire una speranza, un qualcosa in cui credere.

Pietro ha bisogno anche “di soldi e di riposo”. Di soldi perché la “malattia costa”, per le cd terapie che lasciano il tempo che trovano e che spesso sono una pura illusione quando non addirittura uno “specchietto per le allodole”, un inganno sottile più o meno premeditato, visto com’è ridotto il figlio, quali progressi ha conseguito. Anzi non ha conseguito. Tanti soldi significano poi povertà, soprattutto quando lo stipendio è unico. E povertà significa anche maledizione, abbandono. Abbandono da parte delle Istituzioni, in cui Pietro pertanto non crede più.  Eppoi è il riposo che manca. Se ne sta costantemente rinchiuso, imprigionato al servizio del figlio, in una gabbia sempre più stretta, asfittica. Quell’aria che ha trattenuto per donare amore e poi ” trovarsi trascinato sotto il peso delle macerie dei desideri delle speranze” , a cui ha dovuto rinunciare.

E tuttavia né i soldi né il riposo mancato sono per Pietro il problema più grande. Lo è invece il disamore. Dopo aver inizialmente sviluppato un enorme affetto che l’ha portato ad una grande dedizione per il figlio, al contrario della moglie che continua ad amare Jacopo “senza riserve” e ad essersi rassegnata alla situazione”, Pietro sviluppa progressivamente odio e rabbia che sempre più stenta a contenere verso il
figlio che vive come “qualcosa di sbagliato”, come un “peso”. Rabbia e odio per un dolore giornaliero che non trova sfogo, per domande che non trovano risposta, per un isolamento data l’assenza di supporti concreti, per un’incapacità ad accettare la sventura… Tutte queste negatività sembrano spingerlo nella disperazione.

“Una vita virata dall’amore, al dolore, all’odio, alla rabbia”. Una vita in cui non si riconosce più. Pietro “vive ogni giorno lottando contro questo nemico che si trova all’altezza del cuore”.. Ma il dolore di Pietro si trova di fronte qualcosa di nuovo ed inaspettato. Agata Gaia e Oliviero rappresentano “quell’umanità che resiste,” e che salva. “Questa vita è una cosa favolosa” cantava Rascel in “Padre Brown”. Già, nonostante tutto. “Il destino a volte è come un aquilone “. canta splendidamente Gianni Togni, ” E cambia direzione all’improvviso”. Se non si può cambiare il senso di una “malattia”, le si può cambiare il “verso”, se s’incontra l’umanità giusta ed allora sarà più facile, parafrasando il bravo cantante romano, “sorridere alla tristezza”, ed illudersi che ” non l’incontri più”.

 

Stefano Araldi

2 risposte

  1. La malattia costa, è vero. Così chi riesce economicamente a permettersi aiuti importanti e appoggi ha la possibilità di portare avanti un percorso positivo. Le altre famiglie arrancano. Mi è capitato di sentire una storia, anni fa, che raccontava di un assistente alla persona che dovendo scegliere tra un ragazzo disabile grave affidatogli all’interno di una comunità e un ragazzo con sindrome autistica di buona famiglia da seguire in settimana bianca, ha scelto la seconda opzione. Con buona pace del ragazzino che aveva tanto bisogno. E in ogni caso un assistente per due persone.

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