Presidente della Repubblica un padre rifondatore

23 Gennaio 2022

Pacato gentiluomo, orientato a un ottimismo più imposto dalle circostanze che giustificato dalla permanente criticità dei tempi, Sergio Mattarella ci ha ricordato nel suo discorso di fine anno che, Costituzione alla mano, il suo ruolo è da ritenersi irrevocabilmente concluso. Unico punto fermo di una situazione tuttora assai ingarbugliata. Nel tracciare l’identikit del successore è stato, come si conviene, di mano lievissima se non per un punto declinato con particolare incisività: chiunque sia, dovrà spogliarsi della precedente appartenenza politica e della relativa identità di parte per interpretare al meglio l’interesse di tutti e aderire con piena convinzione alla dimensione comunitaria e plurale della nazione. Il che pare alludere al corredo di attitudini supplementari cui dovrà far ricorso chi riceverà la guida di un Paese in una situazione non più disperata ma tuttora drammatica. Altre voci, di tutt’altra cultura politica, sembrano andare in analoga direzione. Giorgia Meloni si inserisce nella grande partita del Quirinale ripetutamente invocando un patriota. E’ sovranista, si dirà, e questo spiega tutto. Forse. Ma come dimenticare che nella parola patriota c’è la radice latina di pater, cioè padre. Il che evoca non solo l’autorità propria della più alta carica istituzionale ma anche un opportuno dosaggio di ‘mozione degli affetti’.

Pur se a orientare la scelta conclusiva saranno i reali margini di manovra di una trattativa impervia, sarebbe dunque desiderabile un profilo non solo costituzionalmente impeccabile ma in possesso di un elevato tasso di consapevolezza che una comunità ferita e disorientata andrà sostenuta in un difficile processo di automedicazione. Se infatti la ‘rinascita’ è necessariamente vincolata a quella dimensione materiale che ci fa confidare nei finanziamenti europei e in alcuni indicatori economici finalmente positivi, queste leve non saranno sufficienti in assenza di una adeguata mobilitazione di energie morali e di quell’etica della responsabilità individuale e collettiva di cui sono depositari a pari titolo società e istituzioni. Registriamo al riguardo più parole che fatti. E’ tuttavia interessante che vengano evocate in prima battuta parole come patria, nazione, patrioti e comunità che, richiamando l’urgenza di un’autentica pacificazione politico sociale, paiono alludere a un percorso di rinascita poggiante più che sull’entità astrattamente
burocratica dello Stato o dell’Europa comunitaria, sulla pregnante e concreta dimensione della comunità nazionale. Il Paese, che storicamente ha avuto a suo tempo padri fondatori di grande statura, avverte oggi il bisogno di padri rifondatori. Personalità forti, biografie di carisma e peso specifico. Si torna a quell’interpretazione alta dei ruoli politici e istituzionali che finalmente archivia il desolante minimalismo che accompagnò a suo tempo l’astro nascente dei 5 Stelle. Quando il ripudio della casta tracimava nell’esaltazione dell’uomo qualunque che solo in forza di una fedina penale intonsa è all’altezza di qualunque carica.

Il successore di Mattarella dovrà misurarsi con due gigantesche sofferenze. Sulla prima, legata all’immane sciagura della pandemia, non occorrono parole ulteriori. Ma un’altra sofferenza, di ben più lunga durata, ci affligge, distorce le fisiologiche procedure di un’autentica democrazia liberale e, ostacolando la possibilità di tutte le parti politiche di riconoscersi in un unico perimetro di regole condivise, finisce col depotenziare le nostre capacità di fare sistema. E’ la sofferenza della politica nel più lato senso della parola: culture politiche languenti, mancata formazione e ricambio di classi dirigenti, debole spinta progettuale e ideale, incapacità di stabilizzare schieramenti riconoscibili per autentica convergenza programmatica, difficoltà complessiva del sistema di reagire all’ irruzione di un corpo estraneo di entità numerica e forza destabilizzante quali i 5 Stelle, miracolati dal voto del lontano 2018 . Se è vero che erano e restano fenomeno protestatario più che autenticamente propositivo, non per questo ne va sottovalutata la singolare natura originaria di partito delle toghe, cioè di soggetto organico alle fazioni più politicizzate
dell’ordine giudiziario.

Ed eccoci al nocciolo della questione che molto ha a che fare col profilo del futurocapo di Stato. Dagli anni ‘90 l’Italia subisce infatti l’anomalia di un ordine politico tenuto sotto schiaffo, ai limiti del commissariamento, da fazioni e bande dell’ordine giudiziario palesemente in grado di condizionare singole carriere nonché l’intero corso politico scelto dagli italiani in libere consultazioni. Il che ha generato nell’opinione pubblica diffusa sfiducia nell’imparzialità della giustizia. A tutti è presente quali e quante pentole abbia scoperchiato il recente caso Palamara. Porte pericolosamente girevoli fra magistratura e politica, togati che riscuotono alla cassa della politica, specie del Pd, i dividendi di popolarità raggiunte con grevi dosaggi di giustizialismo mediatico, macchine del fango attivate con scientifica tempistica, accessi alla magistratura pilotati e truccati, nomine di dubbia legittimità costituzionale, crescente capacità dell’ordine giudiziario di occupare spazi e ruoli di normale pertinenza politica. Quanto basta per far parlare di un Paese ridotto a un ‘mandarinato giudiziario’ in cui politica e giustizia, a dispetto dei tanti capaci e onesti presenti nell’uno come nell’altro ordine, sono ormai gestite da autentici comitati d’affari.

Che ogni seria riforma sulla strada di efficienza, modernizzazione o, più semplicemente, normalità, incontri l’insormontabile veto di un pugno di strapotenti corporazioni è triste e antico retaggio italiano. Fa testo, nel suo evidente calvario, il caso della riforma della giustizia. Il recente sforzo della guardasigilli Marta Cartabia è stato mortificato e ridotto al pasticciato ‘vorrei non posso’ che l’interessata stessa invita a non chiamare riforma ma mediazione. Quanto restiamo impigliati nel passato e prigionieri delle sue dinamiche lo attesta, a suo modo, anche la candidatura di Silvio Berlusconi al Colle da leggersi, forse, più alla luce del passato che del futuro. Un parte del sistema -politicamente maggioritaria nel Paese- rivendica la riabilitazione pacificatrice di una figura che, pur con errori e leggerezze, è stata capitolo rilevantissimo della storia nazionale e oggetto di un killeraggio mediatico giudiziario senza eguali nell’era repubblicana. Se il prossimo inquilino del Quirinale dovrà avere, anche in minima parte, la forza risolutiva di un autentico patriota non potrà che interpretare in modo meno reticente e inerte il suo ruolo costituzionale di presidente del Consiglio superiore della magistratura. Cioè dell’organo garante di quell’autonomia dell’ordine giudiziario che finisce o dovrebbe finire là dove comincia quella dell’ordine politico.

Ma chissà perché su tutto questo grava il più assordante silenzio.

 

Ada Ferrari

2 risposte

  1. Se davvero candidano Casini..non c’e’ piu’ nessuna bandiera,nessun patriota, ma solo e soltanto il Santo Padre che dovra’ annullargli un altro matrimonio.

  2. Penso che l’Italia nei prossimi anni dovrà fare i conti col mostruoso debito pubblico. Credo che abbia bisogno che al Colle sieda l’unico uomo che possa dare garanzie all’Europa e cioè Mario Draghi, un gigante in una tribù di politici Pigmei. Tutto il resto sono belle parole, ma credo che la concretezza sia auspicabile. Purtroppo stiamo assistendo all’ennesima commedia dei Pigmei. Speriamo non si trasformi in tragedia.

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