Una 500 con i cavalli

22 Dicembre 2023

Era il 1963. Gli studenti di Cremona, all’epoca senza una sede universitaria, una volta ottenuta la maturità classica o scientifica, erano costretti a trasferirsi, per frequentare un corso di laurea, a Pavia, Milano, Parma o Bologna, ma c’era chi sceglieva Venezia per diventare interprete o Firenze per iscriversi ad architettura o, come nel caso di Antonio, che voleva diventare veterinario, Torino. Città diverse ma uguale prassi. Si prendeva in affitto una stanza presso un affittacamere, le cui credenziali erano state avallate da un conoscente, o un appartamento da condividere con altri studenti e si incominciava a frequentare le aule universitarie. Per gli studenti si apriva di colpo un mondo nuovo, catapultati lontano dal controllo dei genitori, senza obbligo di frequentare le lezioni.

Antonio non aveva ottenuto dal severo padre, pure veterinario, il permesso di usare la Simca 1000, regalo per il conseguimento della maturità classica, per recarsi all’Università e, a malincuore, era costretto a spostarsi con i mezzi pubblici. A differenza di altri compagni di scuola che avevano scelto città più vicine a casa, il futuro veterinario era solo a misurarsi con il tradizionale carattere freddo degli abitanti della città della Mole. Avendo trovato una stanza in corso Massimo D’Azeglio, finì per diventare un frequentatore abituale del bar dell’Università, in corso Marconi angolo via Madama Cristina, a ridosso degli uffici della Fiat. Era una denominazione ingannevole, dal momento che pochissimi erano gli studenti che lo frequentavano e quei pochi tutti fuori corso, mentre la maggior parte degli abituali clienti era composta da persone che provenivano da altre città e avevano raggiunto Torino per lavoro, come Angelino, un simpatico senese di 35 anni impiegato alle Poste, o Dario, 30 anni, di Alessandria, che lavorava presso uno studio di architettura, o Bino, un astigiano vicino ai quaranta, rappresentante di pneumatici inglesi o ancora il trentaseienne conte Roberto, un nobile decaduto di Grosseto, obbligato dalla famiglia a raggiungere Torino per svolgere l’attività di rappresentante di medicinali dell’industria farmaceutica di proprietà della madre, gran frequentatore di case da gioco.

Il comune denominatore della compagnia era la grande passione per l’ippica, in particolare per le corse al trotto, non tanto per amore dei cavalli quanto per il forte impulso al gioco d’azzardo e, per questa passione, per loro gli ippodromi erano la materia prediletta. Le giornate avevano un andamento molto simile. Dopo mangiato, finita l’abituale partita di biliardo o di boccette, chi non aveva impegni di lavoro si trasferiva nella sala corse di via Nizza per puntare su questo o quel cavallo scelto come vincitore, attendere il risultato della corsa e, in caso di vittoria, le quote del totalizzatore. L’Università poteva aspettare. Con il trascorrere delle settimane e dei mesi la comitiva aveva fatto un salto di qualità, passando dalle puntate nell’interno della sala corse a quelle che venivano fatte direttamente negli ippodromi: Vinovo alla periferia di Torino, San Siro a Milano, a Padova o a Modena, anche se in questi ultimi due anelli si correva poche volte all’anno.

La Fiat 2300 di Bino faceva da apripista alla Fiat 1600 coupé di Roberto, tutte a pieno carico. Terminata la riunione ippica, che da aprile in poi si svolgeva di sera, vinto o soprattutto perso, facevano ritorno a Torino giusto in tempo per assistere al secondo spettacolo di strip tease che andava in scena alle due del mattino, al Perroquet o al Chatam, noti night club. Ogni martedì e ogni venerdì, alle undici precise, si riuniva il gruppo “di lavoro”, occupando i tavolini all’aperto del bar per studiare le possbilità di vittoria o di piazzamento dei cavalli che partecipavano alla corsa Tris. Indovinare i primi tre, nell’ordine esatto d’arrivo, significava a volte una vincita cospicua.

Dopo la pausa pranzo, venivano prese le decisioni definitive. La corsa scattava alle 17 e si poteva puntare fino a un’ora prima del via. Raramente venivano indovinati i primi tre, ma quando accadeva, siccome la vincita andava divisa tra una quindicina di persone, ad Antonio non restava molto da mettersi in tasca. Il più del volte, a metà settimana restava senza soldi e ricorreva al vaglia telegrafico che gli spediva la famiglia. C’era però l’ultima spiaggia, cioè l’ottava corsa, per rifarsi delle perdite. Qui le giocate erano individuali e Antonio in un pomeriggio catastrofico per le sue finanze, che dovevano servire per tutta la settimana, giocò le ultime diecimila lire sull’accoppiata Alpone-Spartivento, due cavalli che non avevano mai ottenuto brillanti risultati in tutta la loro carriera. In un lotto di sedici partenti, i due ronzini giunsero primo e secondo. Antonio ha raccontato per molto tempo le imprecazioni che uscivano dalla bocca del gestore della sala corse quando, visto il biglietto vincente, dovette sborsare seicentomila lire. Quanto valevano? Una Fiat 500 costava all’epoca all’incirca 540 mila lire. Antonio, per migliorare la qualità dei suoi spostamenti in Torino, pensò bene di acquistarne una. Un episodio indimenticabile. Un esame non lo sarebbe mai stato.

 

Sperangelo Bandera

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