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Chi l’avrebbe mai immaginato che da Costantinopoli sarebbe arrivato in Italia uno degli alberi più intriganti e dai fiori più belli coltivato nei nostri giardini, benché infrequente? E che grazie ad esso, alla ricerca etimologica, avremmo fatto un fantastico viaggio intorno al  mondo, nel tempo e nello spazio, nella storia e nel mito? Perché prima di arrivarci, a Costantinopoli, e anche nel prosieguo del cammino, di strade ne percorreremo diverse, a volte tortuose ed  intrecciate tra loro, ma dai significati suggestivamente illuminanti.

L’albero, fotografato a giugno alle porte di Cremona, è stato infatti variamente denominato. Ad  esempio Mimosa, di genere, e in effetti con la mimosa per eccellenza, la pudica L. , o sensitiva, ha in  comune l’aspetto fogliare e la ‘timidezza‘. 

Le foglie sono in entrambi i casi simili a penne, divise ciascuna in numerose coppie di foglioline,  fino a 25 nella pudica, fino a 60 nella nostra. (foto 1, 2) 

Ma è il loro comportamento che stupisce. Toccando le foglie della pudica,infatti, esse rapidamente si chiudono a scopo difensivo, come se fossero timorose, riservate al contatto, pudiche appunto, donde il nome di specie. Comportamento talmente importante che ha assunto un valore scientifico, nel  termine tignomastia. Il nome stesso di mimosa a questo fenomeno anch’esso rimanda, dal latino mimus cioè mimo, attore che imita il movimento altrui, in questo caso quello di chiusura delle dita  di una mano. 

Originaria dell’America latina, la Mimosa pudica s’è poi diffusa in diversi continenti. 

Le foglie della mimosa qui rappresentata, invece, tendono a chiudersi lentamente al tocco della  notte, come se stessero per addormentarsi. Un tocco ipnotico dunque,da cui il nome di Albero del  sonno o Night sleeper o sleeper tree. Al fenomeno si collegherebbe anche la denominazione  Shabkhosh, derivata dal saluto persiano ‘Shab Bekheir’, che significa buonanotte

Ma pure il tocco della pioggia ne provocherebbe la chiusura o addirittura la caduta, donde il nome  di Albero della pioggia

Rimanendo in tema di foglie, il termine incerto di genere Feuilleea, dal francese feuillage, si  riferisce inequivocabilmente al suo ricco e singolare fogliame. 

L’albero è stato chiamato anche Acacia, genere che comprende piante dall’Oceania, dall’Africa, dal Nordamerica e dal sudest asiatico, in parte insediatesi anche in Europa. 

L’etimologia dell’acacia deriva dal greco akakia che è un raddoppiamento del termine ace che  significa punta o spina, in riferimento alla presenza di spine in tante piante del genere, ma non in  questa. E allora? 

Allora per una via stretta e tortuosa ho trovato un collegamento con la parola Gaggia (arborea) con la quale la nostra acacia è volgarmente definita, ma anche la Robinia, pianta di origine  nordamericana che di vera acacia non si tratta, e comunque ad essa simile, donde il nome di specie  pseudoacacia, e che tuttavia è dotata di robuste spine pungenti.  

Riguardo alla denominazione di albero del sonno, va detto che in portoghese è chiamata Acacia  nemu, Willd, ove nemo in latino sta per nessuno, ad indicarne l’anonimato, ma anche  l’addormentato che ci sta benissimo perché quale condizione più di quella del sonno rende le  persone anonime le une verso le altre?

Termine che trova in Giappone una corrispondenza di significato nei nomi comuni di nemunoki,  nemurinoki, nenenoki, come nel termine cinese hehuan, letteralmente ‘chiuso felice’, che sta a  simboleggiare una coppia a letto. 

A forza di girovagare, siamo arrivati al suo nome di genere attuale, che ci conduce finalmente alla  capitale dell’Impero romano d’oriente, e cioè Albizia, dedicata al nobile fiorentino Filippo degli Albizzi che nel 1749, di ritorno da Costantinopoli, introdusse questa pianta a Firenze, ed essendo  presumibilmente questa segnalazione scientifica la più antica nota, è rimasta come nome ufficiale di genere dell’albero. 

Tuttavia, se il nome di genere è spesso cambiato, quello di specie invece è rimasto più costante e  cioè Julibrissin Durazzini, che ci fa permanere perentoriamente in oriente. 

Esso deriva infatti dal persiano Guli-abrisham, perciò si ritiene la Persia la sua terra originaria, che significa fiore di seta, in riferimento agli stami allungati e setosi che costituiscono la parte più  rappresentativa del fiore, donde il nome di Albero della seta persiano o silk-tree; oppure  dall’arabo Djulab che significa acqua di rose. 

I fiori dell’albero, dunque, ermafroditi e intensamente profumati, nascono in capolini subsferici su corto peduncolo (foto 3), che poi si aprono in ampie pannocchie ove il calice e la corolla  rimangono di dimensioni molto ridotte, mentre gli stami inizialmente fusi alla base e biancastri, via  via si allungano e si dividono come pennacchi, acquistando tinte che vanno dal giallo al rosa al violetto che si diramano in varie direzioni, numerossimi e dall’aspetto piumoso/setoso, creando  queste visioni spettacolari (foto 4,5,6). Un albero tutto speciale perciò chiamato anche Mimosa  speciosa, analogamente ad altre specie. 

Ho parlato di penne, piume: anche il richiamo all’ornitologia sembra pertinente, visto che c’è un  uccello, la gru coronata, la cui testa sovrastata da rigide spine dorate, richiama proprio il capolino  fiorale dell’Albizia. 

Sono tuttavia questi stami setosi che meritano un ulteriore approfondimento. 

L’albero come genere è stato chiamato anche Sericandra ( julibrissin Rafinesque ) per la prima  volta in Sylva Tellur nel 1838. Nome questo che ha tratto in inganno qualcuno perché lo si è  ritenuto composto dal prefisso greco serikos da seta, sericeo, con le caratteristiche della seta, e  anthos , fiore per analogia con altre note denominazioni. In realtà il suffisso deriva da andros che  significa uomo, dunque maschile. E in effetti questo è azzeccatissimo perché i numerosi stami  sporgenti che vediamo altro non sono che la parte maschile del fiore, mentre lo stilo da fecondare è unico. Quindi stami piumosi che della seta hanno le caratteristiche principali di morbidezza,  lucentezza e gradevole uniformità. 

Ci sarebbe da dire anche sul prefisso Seric come sinonimo di seta. Perché infatti sericeo anziché  setoso? Dal punto di vista etimologico sarebbe più corretto il secondo. In realtà, etimologicamente parlando, la parola sericeo con la seta non c’entra assolutamente niente, ma c’entra per altri motivi  che rimandano alla storia e alla mitologia. 

Era noto agli antichi greci e romani un popolo che abitava in Asia, in una regione chiamata Serica,  tra gli Altai e il Pamir, il popolo dei Seri o Seres, da qualcuno identificato coi cinesi ma rispetto  ai quali abitavano territori diversi e avevano anche caratteristiche morfologiche diverse. Di statura ben più alta del normale, dalla vita lunghissima, profondamente saggi e frugali, ma soprattutto noti come i primi produttori e commercianti di seta.

E’ noto che la seta non deriva da una pianta, bensì è una fibra tessile prodotta dalle larve di una  falena, il Bombyx mori. I Seri furono i primi a scoprirlo e fu grazie ai loro mitici antenati che i  Greci e i Romani conobbero la seta, di cui questi fiori stupendi riassumono le principali  peculiarità. 

Ma non è finita qui, Proveniendo dall’Australia si è diffusa a livello spontaneo sulle isole e le coste  occidentali dell’Italia, Lazio escluso, una pianta chiamata Paraserianthes lophantha ssp  lophantha ( Wildd) I.C.Nielsen. Ebbene, scomponendo il primo nome, dal greco, il prefisso sta per  para che significa presso, quindi compare ser che sta per filo di seta e quindi questa volta sì il  termine anthos che sta per fiore per cui ne deriva il significato di pianta dai fiori simili a fili di seta. Non solo, il nome di specie lophantha a sua volta deriva dal greco lophos che significa ciuffo, cresta o pennacchio e ancora anthos che sappiamo già che significa fiore. Quindi fiore con  pennacchio, con la cresta di piume dalle caratteristiche della seta. 

I fiori, in questo caso gialli, stanno a svelarci quanto la natura, incrociando il mondo, sa creare di  meraviglioso ed avvincente, stimolando la fantasia, anche solo a parlare di un fine piumaggio. 

Non si può quindi non cogliere la similarità del fiore con quello dell’ultima pianta da me trattata, il  Cotinus coggygria Scop, o Albero della nebbia, la cui singolarità non è data però dagli stami, ma da peli piumosi che emergono nello sviluppo.  

Concludendo, non rimane a questo punto che soffermarsi in religiosa contemplazione (foto 7,8,9).

 

 

Stefano Araldi

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