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Per canto del cigno s’intende l’espressione canora più melodiosa e felice dell’esistenza dell’uccello,  che viene esibita in prossimità della morte. 

Per estensione, l’ultima opera di valore di una carriera che volge al termine. 

Ne parla Socrate nel Fedone, opera di Platone, per tranquillizzare alcuni suoi discepoli poco prima  di bere il veleno mortale, paragonando il suo stato d’animo a quello dell’animale che, in quanto  sacro ad Apollo, canta felice e nel migliore dei modi perché sa di ricongiungersi al suo dio. 

Analogamente Socrate muore “volentieri” perché sa che la sua anima è immortale. Eppure questo canto dell’ultima ora sarebbe un’invenzione letteraria. 

Il termine stesso “canto” sarebbe un equivoco, benché il cigno selvatico Cygnus cygnus L., a cui  esso è attribuito, sia chiamato anche “musico “o “canoro”

L’animale in realtà emetterebbe un insieme di suoni simili a quelli di trombette o clacson, in  particolare come richiamo d’amore, quando si sente minacciato o quando è in volo. 

Non risulta un canto melodioso prima di morire. 

Eppure l’idea del suo canto sacro della morte è diventato un topos, un luogo comune nella  letteratura e nella musica sin dall’antichità. 

Oltre a Platone e Socrate, infatti, ci credevano anche Alceo, Saffo, Aristofane, Eschilo, AristotelePolibio, persino Cicerone; e fu pure messo in musica dai madrigalisti rinascimentali, da Arcadelt Gibbons, e dal grande compositore viennese Franz Schubert, in una raccolta di 14 lieder intitolati  

“Schwanengesang” che, ironia della sorte, furono l’ultima sua opera perché poco dopo morì di  tifo. 

Che si fossero tutti sbagliati? Strano! Infatti ai miti si può solo credere, ma la voce del cigno prima  di morire la si può sentire realmente! 

Comunque stiano le cose, c’è tuttavia un fenomeno naturale che inequivocabilmente può essere  interpretato come un “canto del cigno”, visivo però, una “musica per gli occhi “, e cioè l’abito  autunnale che le foglie degli alberi assumono quando muoiono, e poi cadono al suolo. 

In particolare quelle del Liquidambar stiraciflua L.1753, che nella stagione autunnale presentano  un viraggio cromatico più unico che raro. 

Che sia perciò anch’essa una pianta sacra ad un dio, come i cigni? 

In effetti ci sono molte cose anomale in lei, a partire dalle sue origini. 

Il Liquidambar è infatti l’unico genere della famiglia delle Alpindaceae , nata in epoca preistorica,  nel Miocene (da circa 25 milioni a 5 milioni di anni fa), grazie ad importanti cambiamenti climatici ,  ossia un’epoca di raffreddamento terrestre, che tuttavia lasciò comunque un clima ad una  temperatura più elevata di quella attuale, ma che contribuì al ritiro delle piante con caratteri  tropicali, e ad un incremento delle nostre tipiche caducifoglie.

Un’unicità che si rivela anche nel viraggio fogliare e che si fonda su un paradosso: la molteplicità di  colori e di combinazioni cromatiche che manifesta non solo sulla stessa pianta, ma anche sulla  stessa foglia. Oppure può accadere che una pianta abbia le foglie verdi, e che quella a fianco di  pochi metri, le abbia già tutte gialle. 

L’indagine è stata condotta in via Trebbia a Cremona nell’arco di due autunni: l’attuale e quello  scorso, e la prima differenza che ho notato, comparando le diverse foto, è stata il viraggio delle  foglie al rosso più precoce e abbondante nel 2023. 

Ma come son fatte innanzitutto queste foglie? Assomigliano a quelle di alcune specie di acero, che  tuttavia appartengono a tutt’altra famiglia e sono opposte, mentre nel Liquidambar sono alterne.  Quindi lungamente picciolate a 5/7 lobi con nervature evidenti e parallele, gli apici appuntiti ed  inizialmente verdi su lunghi rami flessuosi (foto centrale). La foto evidenzia anche i frutti sferici aculeati  ancora verdi e penduli alle estremità dei rami. I fiori purtroppo non sono visibili perché primaverili. 

Le foglie sono profumate vuoi forse anche per l’ambra, una resina che la pianta contiene e che le  dà il nome. Liquidambar, infatti, dall’etimologia mista latino/arabo, significa ambra liquida styraciflua dal greco styrax, da cui il nome volgare di storace che sta ancora per ambra e phluo  che significa fluire in abbondanza, ad indicare la resina che trabocca ad incidere la corteccia della  pianta. 

Le foglie stellate virano dunque cromaticamente dal verde al giallo e in questi due colori possono  essere a lungo presenti sulla stessa pianta (foto 2) che sale in altezza da noi fino a 25 metri o poco  più, mentre in Nordamerica, di cui è originaria, sale fino a 45 metri. Le foglie sono molto  abbondanti e possono cadere a più riprese, tappezzando a lungo i marciapiedi. 

Da verdi diventano poi completamente gialle (foto 3), e di un giallo dorato (foto 4) a portamento  ora piramidale ora arrotondato. Un colore entusiasmante, che riempie d’oro luccicante l’atmosfera  e che nel prosieguo della sua magica evoluzione mortale si connota anche di rosa (foto 5) e di  arancione, in un’alternanza di colori sublimi (foto 6) col verde che ancora persiste a suscitare  un’atmosfera fiabesca.  

Compare quindi il rosso (foto 7) su queste alte chiome piramidali che ben contrastano col cielo  azzurro. Di un rosso chiaro inizialmente (foto 8) che tende a evolvere in un color vinaccia violaceo  quasi nero e quindi a suscitare, nella diversa evoluzione cromatica (foto 9), meravigliosi contrasti  tra una pianta e l’altra. 

In una visione ravvicinata (foto 10) oltre al corrugamento dei fusti, si può apprezzare la grande  varietà di sfumature tra il giallo ed il rosso nel ricco assembramento fogliare, che diventa una  miscela ancor più complessa dove compare anche il bronzo (foto 11), e che ricorda, per lo  spiegamento degli apici fogliari, tanti uccelli dalle ali distese a spiccare il volo. 

Una vera e propria arlecchinata di colori (foto 12) quasi irreale, metafisica, che non è facile  riscontrare altrove nel mondo arboreo e che non smette di stupire, suscitando infinite variazioni  sul tema delle combinazioni cromatiche anche all’interno delle stesse foglie come in queste a terra  (foto 13), dove il rosa della prima foglia in basso a destra è attraversato da una banda giallo chiaro, limone, colore che intacca anche due apici; o dove una metà della foglia, quella appena dietro, è  arancione e l’altra metà di un giallo più carico.

Una vera arlecchinata, dicevo. 

E qua viene il”bello”, perché gli arlecchini erano anche dei demoni che accompagnavano le anime  dei morti  ed è trasformandosi in arlecchini che le foglie poi muoiono e quindi cadono. 

Ritorna dunque il tema della morte da cui eravamo partiti, che nel caso in questione si collega a  miti del centro nord Europa tra cui uno dei più famosi era la “caccia selvaggia”, ossia il ritorno di  una schiera di spiriti inquieti e dannati a cavallo tra cielo e terra nella “stagione oscura“, l’inverno,  e qua ci stiamo approssimando all’inverno. 

Rappresentazioni che servivano a esorcizzare la paura del soprannaturale e quindi della morte. E  quale miglior modo per sconfiggerla, la morte, se non negandola, ovvero abolirla in un ambito  ultraterreno, come fecero Socrate e i suoi cigni? 

E come fanno le piante a foglie caduche, le quali morendo si rivestono di colori spettacolari che  inneggiano alla vita, pur essendo preludio di morte. Quella vita che risorgerà in primavera dopo il  letargo invernale, e che rivestirà le piante delle loro foglie novelle, verdi, in un ciclo continuo di  morti e di rinascite. 

Un ciclo non metaforico, come nel cigno, ma reale, ed in una forma fantasmagorica in cui solo una  pianta straordinaria come il Liquidambar poteva rivelarsi. 

 

Stefano Araldi

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