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Da decenni mi è noto l’Erythrostemon gilliesi (Wall e Hook) Klotzch, benché non sia  particolarmente diffuso. Ho deciso di parlarne da quando mi è comparso in un paese della nostra  provincia,il 14 settembre scorso, in un suo sviluppo di straordinaria bellezza  (foto 1 centrale). Splendida apparizione dai colori vivaci e brillanti, quel giallo e quel rosso che dialogano tra loro. Non c’è bisogno di tanti colori in natura per creare suggestive composizioni: ne bastano due in  questo caso, uno dei quali, il rosso, è stato ritenuto talmente importante, nel contesto di quella sua  originalissima forma e di quella ricca fioritura, da diventarne il nome del genere di appartenenza. 

Erythrostemon dunque dal greco erythros rosso e stemon stame per quei dieci vistosissimi stami  rosso cardinalizi che fuoriescono lunghi e variamente orientati dalla fauce del fiore a cinque petali  gialli (foto 2). 

Questo nome rappresenta poi una svolta rispetto alla tradizione che persiste invece nel nome  specifico gilliesi. Per la prima volta, infatti, si fa riferimento ad una caratteristica morfologica della  pianta, mentre in tutti gli altri casi l’attribuzione del nome era in onore a personaggi famosi, studiosi o appassionati di botanica. 

Dallo scozzese John Gillies (1794-1834), medico esploratore e botanico soprattutto in Sud  America, continente di provenienza della pianta, in particolare le regioni temperato-calde  dell’Argentina e dell’Uruguay, da cui il nome di specie; al francese Philippe de Longvilliers de  Poincy (1583-1660), governatore della Guadalupa da cui il precedente nome di genere Poinciana;  al medico e botanico italiano Andrea Cesalpino (1519-1603), da cui l’altro nome di genere ormai  superato di Caesalpinia

S’è preferito quindi privilegiare l’aspetto cromatico, quel rosso che gli valse il soprannome di  ‘Albero del fuoco’. E in effetti è facile pensare, vedendo questi stami, a dei fuochi d’artificio  sparati in varie direzioni, a delle lingue di fuoco di un mostro infernale, o a dei lapilli eruttati dalla  bocca di un vulcano. 

Eppure dall’Inferno al Paradiso il passaggio è breve. 

Le lingue di fuoco, infatti, rimandano anche al divino: le ‘lingue’ della Pentecoste, descritte negli  Atti degli Apostoli, che si posarono sugli stretti seguaci di Gesù riuniti nel Cenacolo, a  simboleggiare la discesa dello Spirito Santo. Evento non da poco perché segna l’inizio della  missione evangelica. 

Ma al Paradiso ci arriviamo anche per altra via, perché questi lunghi stami su cresta gialla, gli  valsero il nome di Uccello del Paradiso giallo o Pianta del Paradiso per il richiamo allo  spettacolare piumaggio del famoso uccello australasico. 

Da non confondere con la Strelitzia reginae Banks (foto 3), pianta di origine sudafricana che di  questi tempi potete trovare nei vivai anche in fiori recisi, e pure essa chiamata Uccello del  Paradiso, per la cresta fiorale dai colori vistosi, su una lunga spata quasi orizzontale, che ricorda il  becco di un volatile, non quello dell’uccello del Paradiso, che ce l’ha corto, ma quello di un  airone.  La fotografia ci permette poi di notare l’evoluzione fiorale della pianta (foto 4, 5) i cui fiori inferiori del denso racemo piramidale, progressivamenre ristretto all’apice, sono i primi ad aprirsi e ad  allargare la base dell’infiorescenza, e tuttavia i suoi stami rossi catturano nuovamente l’attenzione perché richiamano un’altra metafora, quella da cui il nome di ‘Pianta dai baffi di gatto’.  Le vibrisse, peli tattili del muso del gatto, strutturalmente modificati per migliorare la percezione  dell’ambiente circostante. Una sorta di antenne, dunque.  Che valga lo stesso discorso anche per gli stami dell’Erythrostemon che condividono con l’unico  stilo, la parte sessuata femminile, lo stesso giaciglio? 

E perché no? Sta di fatto che è proprio con questi stami che il fiore interagisce con gli insetti  impollinatori, che vengono richiamati numerosi, attratti anche dal suo vistoso abito, non tanto dal  profumo che è grato sì, ma debole. 

A questo punto vien da chiedersi se ci può essere nel mondo vegetale qualche altra pianta che  richiami le vibrisse di un gatto. Ebbene si, eccola!  E’ il Clerodendrum trichotomum Thunb, dal  sudest asiatico, a volte confusa con la Catalpa ammazza zanzare, la bungei C.A.Mey,  fotografato  il 23 agosto scorso in un quartiere periferico della città (foto 6, 7, 8). 

Quei lunghi stami bianchi divergenti, vistosamente arrotolati, attorno a uno stilo centrale, per lo  più diritto e affilato come la lama di un fioretto, o leggermente incurvato all’apice, ricordano  inequivocabilmente i baffi di un gatto. Eppure, stranamente, non ho trovato nomi comuni della  pianta che si riferiscano a questa caratteristica.  Lo stesso nome scientifico rimanda ad altro. Clerodendrum significa albero del destino dal greco  kleros sorte e dendros albero; e trichotomum significa diviso in tre parti per la divisione a gruppi  di tre o suoi multipli degli steli fiorali. 

Mistero dunque. Un difetto di osservazione umana? Poco importa anche perché la pianta sa offrire  qualcos’altro di stupefacente che ci permette di tornare a quel dialogo tra due colori con cui ho  iniziato l’articolo e che in questo caso riguarda i frutti, non i fiori. 

Frutti che mentre nell’Erythrostemon hanno una foggia e un colore abbastanza usuale, e cioè di  baccello verdastro punteggiato da rossi tubercoli e molto villoso, nel caso del Clerodendrum  assumono un aspetto assolutamente straordinario.  

Dall’incredibile ‘metamorfosi’ dei fiori bianchi coi baffi di gatto, si sviluppano dei frutti  dall’originalissima forma a lanterna, rosso rosata nel calice in stadio avanzato, che gradualmente  si dischiude a stella, lasciando emergere il piccolo frutto rotondo delle dimensioni di un pisello e  dallo stupefacente colore blu metallizzato (foto 10). 

La straordinarietà di questa combinazione cromatica, ha fatto pensare a una pianta venuta dallo  spazio siderale. E in effetti la forma stellata metaforicamente ad essa rimanda (foto 11). 

Ci troviamo pertanto di fronte a dei virtuosismi della natura, fondati sull’interazione tra due colori  nel contesto di una foggia molto singolare. E in effetti a settembre a Cremona possiamo trovare  altre bacche blu: quelle della Mahonia sp diffusamente coltivata nei giardini e quelle del più raro Prunus spinosa L. Tuttavia in entrambi i casi si tratta di bacche semplici, non circondate da  quell’involucro a lanterna e poi aperto a stella, tipico del clerodendrum, in un’alternanza di forme e  colori assolutamente unica. 

Concludendo, un accenno alle foglie, completamente diverse nei due casi a riprova del fatto che ci  troviamo di fronte a due mondi vegetali molto lontani tra loro, e ciò nonostante seduttivamente  paragonabii sul piano metaforico. Pennate e composte, simili a quelle della mimosa nel caso dell’Erythrostemon, con numerose coppie di foglioline ellittiche su rami subopposti tra loro (foto 12). Molto più grosse, intere a foggia  triangolare con apice appuntito, verde scuro nella pagina superiore e vistosamente innervate, nel  caso del Clerodendrum (foto 13). 

La natura non perde occasione per entusiasmarci, per arricchire le nostre conoscenze e per  stimolare la nostra fantasia grazie anche a un’infinità di combinazioni strutturali che solo essa sa  ‘creare’. 

 

Stefano Araldi

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