Il mito della caverna di Platone (libro VII della Repubblica) è un racconto denso di spunti meditativi che hanno avuto notevole risonanza anche in vari autori di epoche successive: ha ispirato lavori letterari e cinematografici come 1984 di Orwell e Matrix, dei fratelli Wachowski; in entrambe le opere protagonista incontrastata è la manipolazione della realtà attraverso le immagini.
Nel racconto il filosofo descrive alcuni prigionieri in una caverna, incatenati in modo da non potersi girare e costretti a mantenere lo sguardo rivolto alla parete della caverna stessa. L’unica luce proviene dall’ingresso dell’antro e da un fuoco situato dietro un muretto, interposto fra i prigionieri e una strada. Su questa si muovono uomini che trasportano oggetti di ogni tipo (per lo più statuette di uomini e animali). Grazie alla presenza del fuoco, questi oggetti proiettano le loro ombre sulla parete verso cui i prigionieri sono costretti a guardare. Quelle ombre rappresentano l’unica realtà per gli uomini incatenati, perciò il filosofo chiede al discepolo che lo assiste: ”se (i prigionieri) fossero in grado di discutere fra loro, non pensi che chiamerebbero oggetti reali le ombre che vedono?”.
La narrazione prosegue descrivendo uno dei prigionieri che riesce a liberarsi e che inizia a esplorare l’interno della caverna: dopo che il suo sguardo si sarà abituato alla luce, realizza che le ombre sulla parete non sono oggetti concreti. Dopo un comprensibile smarrimento, sarà in grado di fissare lo sguardo sui veri oggetti e poi, una volta uscito dalla caverna, potrà contemplare la volta celeste con la luna e le stelle e, sopraggiunto il giorno, anche il sole che sulle prime lo accecherà, ma su cui in seguito potrà posare lo sguardo più a lungo.
Tuttavia, quando decide di ritornare nella caverna per raccontare agli altri come il mondo sia assolutamente diverso da come hanno sempre creduto, scopre che nessuno dei suoi compagni gli crede. Anzi, alcuni provano per lui un risentimento tale da far loro pensare di sopprimerlo.
La scoperta del mondo (gli oggetti, la volta celeste, il sole) allude al compito del filosofo che deve trasmettere la conoscenza, compito sovente ingrato poiché non sempre “il nuovo” viene accolto con entusiasmo; mutare le proprie convinzioni può essere doloroso al punto da alimentare i sentimenti più negativi.
Come i miti in genere, anche questo si presta a più di una interpretazione. Personalmente, viste le mie scarse capacità critiche, mi limiterò a pormi una domanda su cui riflettere: dopo duemila e trecento anni ce l’abbiamo fatta a uscire dalla caverna o siamo ancora incatenati al suo interno?
Le ombre che vedono i prigionieri non sono troppo diverse dalla miriade di immagini mediatiche che ci piovono addosso in modo continuativo, immagini da cui siamo ormai dipendenti; andiamo alla loro ricerca perché tendiamo a riconoscerci attraverso di esse; la nostra fragile consapevolezza non ci concede molto altro.
È anche attraverso le immagini che la nostra mente viene plasmata, ma la percezione di immagini mendaci ottunde il pensiero che genera un teatro illusorio, così i nostri sensi interpretano frammenti di una realtà sovente ingannevole.
Come i prigionieri del racconto, ci sentiamo a disagio quando dobbiamo apprendere concetti nuovi e preferiamo la rassicurante tranquillità del cosiddetto pensiero omologato, portatore di dogmi che qualcun altro ci ha servito su vassoi d’argento per meglio lusingarci.
Esprimere idee diverse da quelle “alla moda” richiede coraggio, chi lo possiede sa che verrà cacciato nel Limbo – o nel Tartaro – dove sono relegati i diversi, i provocatori, i nemici.
La caverna in cui siamo ancora oggi, non è fatta di pietra, ma di narrazioni dominanti difficili da ignorare o contestare perché difficile è riconoscere i meccanismi di manipolazione alla base della narrazione stessa.
Questo mito è una potente metafora che, fra l’altro, ci spinge a riflettere sulla ambiguità della percezione che indubbiamente svolge un ruolo centrale nel processo di apprendimento, anche se da tempo sono affiorati dubbi sulla finalità cui oggi è destinata.
Giuseppe Pigoli