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Non esistono scritti o testimonianze che confermino il venticinque dicembre come il giorno della nascita di Gesù. I vangeli di Luca e Matteo dicono solo che è nato  a Betlemme, senza riferire il giorno. 

Il venticinque dicembre è una data che definisce una sacralità rituale di gran lunga più antica della Natività e trova una propria legittimità storica in più di un evento relativo all’antico  mondo pagano e rurale.

Le civiltà arcaiche vivevano in simbiosi con la natura perché da questa dipendeva la sopravvivenza. Nei giorni immediatamente seguenti  il solstizio invernale le giornate iniziavano ad allungarsi, il ritorno della luce era atteso con comprensibile trepidazione, al punto che pochi giorni dopo, il venticinque, si facevano feste che consentivano l’aggregazione e la pianificazione del lavoro nei campi.

La vita non doveva essere semplice a quei tempi; non è difficile immaginare come  l’inverno  mietesse la proprie vittime per fame e malattia. In altre parole la festa per la fine della stagione fredda  chiamava a raccolta i sopravvissuti che vedevano nel ritorno della luce la rinascita e la speranza.

Si tenevano festeggiamenti in tutto il continente. Nel nord, fra i Celti, i Germani e gli Scandinavi si celebrava lo Yule con fuochi che ardevano tutta notte, le case venivano decorate con rami di abete e vischio (quest’ultimo era simbolo di rinascita, molto usato dai druidi) e si condividevano i pasti per propiziare forza e fertilità. 

Nell’antica Roma dal diciassette al ventitré di dicembre  si celebravano i Saturnali con banchetti che duravano giorni con scambi di doni e in cui si respirava un’aria di straordinaria libertà al punto che si assisteva al sovvertimento delle regole sociali (gli schiavi sedevano a tavola con i padroni e da questi venivano serviti). Il giorno venticinque era dedicato al Sol Invictus (una divinità assimilabile ad altre più antiche quali Mitra, Helios e Apollo). Quindi in tutto il continente si celebrava la fine dell’oscurità e il ritorno della luce che avrebbe riportato il lavoro nei campi: l’anno economico e civile poteva così ripartire.  

Con l’avvento del cristianesimo queste tradizioni sono andate lentamente, ma inesorabilmente cambiando. La scelta da parte della Chiesa del venticinque dicembre non è stata casuale. Dopo la conversione dell’imperatore Costantino, in quella data non è stato più celebrato il Natalis Solis, bensì il Natalis Christi: cioè Gesù Cristo come luce vera del mondo che vince le tenebre e i fuochi pagani sono stati sostituiti dalle luminarie natalizie.

L’editto di Tessalonica (380 d.C) che decretò il cristianesimo religione di Stato e, più tardi, Giustiniano che fece chiudere i templi pagani rimasti ancora aperti, completarono l’opera di un cambiamento  in atto da tempo. 

Tuttavia le antiche tradizioni non sono state cancellate completamente: la Chiesa ha solo trasformato e non soppresso i simboli (abete, vischio,  doni) e i personaggi pagani  (Santa Claus è una simbiosi di due figure, San Nicola vescovo e Odino che d’inverno porta doni ai bambini). 

Quello che nel IV secolo era nato come un grande progetto per l’uomo, ha perso per strada la componente spirituale, trasformandosi in un’operazione strategica di supporto al potere politico (Costantino è stato veramente grande) e che poi, in tempi più recenti, è stata trasformata in un evento commerciale di portata globale: il dono non è più un atto disinteressato, ma un’operazione economica che sfrutta usanze antiche.

Il mantenimento della data e la sostituzione delle liturgie ancestrali con quelle religiose, ha reso il Natale una festa non solo cristiana, ma anche culturale,  grazie alla stratificazione fra sacralità e tradizione popolare, che è condivisa anche da chi non professa alcuna fede.  

In conclusione: sarebbe doveroso chiederci se quando celebriamo il venticinque dicembre,  onoriamo una strategia politica, un fatturato commerciale o la nascita di un uomo che ha cambiato il mondo con parole che hanno plasmato la coscienza di tutti, anche dei miscredenti.

 

Giuseppe Pigoli

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