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“Cara Franca, ti prego di voler salutare tutti gli amici e vicini di casa e digli che la paura i partigiani non sanno cos’è, non riusciranno mai a liquidarci tutti. Franca spero, se ritorno, un premio da te.. sì, me lo merito un bacio lungo lungo, che duri tutta la vita. Penso sempre a te, e lo so che son matto, ma io ti voglio bene ma non come amica”.

Questa è la lettera di Giuseppe, operaio di 21 anni, partigiano della 81esima brigata Garibaldi, è una lettera d’amore nel cuore della Resistenza, è un amore all’inizio, appena dichiarato a un’amica. Quel bacio Giuseppe non lo avrà, Giuseppe verrà catturato e poi ucciso. 

Nelle lettere dei condannati a morte della Resistenza colpisce sempre la voglia di futuro. Non ci sono parole d’odio, c’è desiderio di vita, di cambiamento, di normalità. 

E queste parole non venivano da uomini maturi, da padri anagrafici, ma da giovanissimi. I nostri padri — i padri di questa Repubblica — sono giovani. Se volessimo provocarci, i nostri padri sono i nostri figli. Giuseppe  è un padre di questa Repubblica, Giuseppe potrebbe essere nostro figlio ed è questo l’insegnamento della Resistenza. 


Ventenni, capaci di pensare al futuro con lucidità, responsabilità, anche di fronte a una condanna a morte. Lo sono anche quando scrivono ai loro cari.

Giovani, operai, donne, giornalisti, sacerdoti, braccianti, carabinieri, professori, intellettuali, persone che hanno affidato a noi il loro sogno interrotto. E non sono solo i sogni dei destini del Paese, dei principi fondativi della Repubblica, sono i loro sogni interrotti, come quelli di Giuseppe, di un bacio lungo una vita, quelli intimi, domestici: rivedere la propria ragazza, riabbracciare il figlio, avere una vita davanti da assaporare di normalità, di affetti, di avventure, “vedere l’erba dalla parte delle radici” per citare la metafora di un grande partigiano come Davide Lajolo comandante Ulisse.

Essere all’altezza di questi padri non è cosa facile anche perché di fronte a noi il tempo sbiadisce tutto, noi non abbiamo più quella memoria vivente che sono i nostri nonni, con i loro racconti, quei tasselli di vita vera ….il tempo riduce quella storia a fotogrammi del passato che si sovrappongono, si confondono, che perdono nitidezza. E così diventa sempre più difficile sentire il senso di quel vissuto, coglierne l’umanità, le sfumature, il coraggio. Sfogliando le pagine della nostra memoria, soprattutto quando ripercorriamo la guerra di Liberazione, si ha oggi la sensazione che tutto venga ridotto a un indistinto, a una melassa, a una sequenza sbiadita di eventi lontani.

C’è la tendenza a mettere tutto sullo stesso piano, il torto e la ragione, e così la riappacificazione nazionale diventa il compiangere i morti tutti, perché giovani, perché con un ideale. E invece no, occorre discernere, occorre distinguere le biografie di chi ha lottato per la libertà e quelle di chi ha sostenuto il nazifascismo. Perché una riappacificazione nazionale è tale se si riconosce il senso di quelle vite, se si riconosce che quello che celebriamo oggi è grazie solo a una parte, la parte giusta. E’ solo grazie a loro che questa festa diventa la festa fondativa della Repubblica Italiana.

Oppure il tentativo di collocare la Resistenza nei recinti della storia: un’Italia più che pacificata, parificata, in cui tutte le posizioni si equivalgono nel loro far parte di una storia nazionale. E se ci pensate bene questa posizione rappresenta il punto di arrivo di una retorica fascista che non può puntare sull’esaltazione del regime e della sua violenza, e allora lavora per screditare il suo contrario, per screditare l’antifascismo.

E si cerca allora di riscrivere la storia contrapponendo una Resistenza “buona” a una “cattiva”, come se si potesse relativizzare tutto.

Ma non ci fu una Resistenza buona e una cattiva. Ci fu una storia di popolo che spezzò la vergogna del ventennio fascista. E il fascismo, prima ancora di una dittatura, fu la reazione delle classi dirigenti alla domanda di libertà, una domanda che saliva dal basso: dalle fabbriche, dalle campagne, dai luoghi di lavoro. Fu il loro silenzio, la loro ipocrisia, fu la delega vergognosa che assegnarono ai picchiatori. Contro quale libertà? La libertà di un salario, di una prospettiva di vita, la libertà dentro alle nostre cascine, la libertà dal pane, di un progetto di vita autonoma senza fronzoli ma senza le ingerenze del padrone.

Quelle piccole libertà conquistate a caro prezzo hanno dato voce a un protagonista che, fino ad allora, era rimasto inascoltato: il popolo italiano. Non l’Italia delle élite, non quella delle celebrazioni ufficiali o dei discorsi solenni, non l’Italia seduttiva verso il popolo perché il fascismo ha sedotto il popolo. L’Italia dei contadini, degli operai, delle classi popolari, l’Italia che si organizza nelle camere del lavoro, nei partiti, nel mutualismo, quel popolo che nel Risorgimento aveva avuto un ruolo secondario, e che invece nella guerra di liberazione diventa protagonista.

Un popolo che seppe parlare con gli intellettuali, confrontarsi con i borghesi, con i padroni, quel popolo umile consapevole delle sue fatiche, che seppe immaginare un altro modo di amare il proprio Paese che seppe dare sostanza alla parola dignità.

È lì che nasce un’idea nuova di patriottismo: non più quello chiuso, retorico, fatto di frasi tronfie, il patriottismo fondato sul privilegio di nascita, sulla proprietà della terra. Il patriottismo di facciata, quello che oggi si ridurrebbe a slogan ottusi, al “prima gli italiani”, il patriottismo che esclude, che trasforma l’identità in barriera.

Ma è un patriottismo aperto, gentile, universale, il patriottismo del mattone dopo mattone, perché il patriottismo non si racconta, si vive, come se ogni cosa da costruire materiale o immateriale fosse la nostra casa; il patriottismo che non si fonda su confini o discendenze, ma sul sentirsi parte di una comunità più grande.

E allora  ritrovarsi anche qui in questa piazza significa prima di tutto riconoscerci dentro a questi valori ma significa anche  riconoscere le nostre paure, le stanchezze, quel senso di smarrimento che ci attraversa quando, a volte, sentiamo che nel nostro Paese  l’egoismo rischia di soffocare la narrazione civile,  quella dell’antifascismo, della Costituzione, dello spirito repubblicano, dell’eredità dei ragazzi della Resistenza. 

Un’Italia che sembra aver perso l’orientamento, che si inchina a icone vuote, che vive la propria secolarizzazione come se fosse un’uscita da ogni spinta etica, da ogni bisogno di comunità, da ogni idea di unione delle differenze in una civiltà condivisa.

Perché la cosa più preziosa che abbiamo non è conoscere, non è la tecnica, non sono le competenze, non è diventare nuovi soggetti di una nuova catena di montaggio magari più raffinata, ma quello che abbiamo nella testa, nell’anima. Questo è il patrimonio di un paese, è la voce di un popolo, delle sue persone, la voce anche del dissenso, è sentire dire da un giovane ‘io penso che’, ‘io non sono d’accordo perché’.

E’ battersi contro un mondo che genera precarietà e solitudine. Non una precarietà voluta per essere più attrattivi sul mercato del lavoro, per essere flessibili, o come si dice oggi resilienti, ma è una precarietà subita, è la precarietà  di chi deve correre per consegnare tre pacchi in trenta minuti o di chi è da vent’anni ricercatore universitario e lo sarà ancora per i prossimi.

Non una solitudine voluta, meditata, creativa, ma una solitudine imposta, prodotto finito di una Babele consumistica, dove la centralità della persona diventa lo slogan per fare della sanità un grande suk, dove l’assistenza alla persona diventa un pacchetto,  in cui tutto diventa merce, tutto diventa una babele che occupa ogni spazio del vivere associato, svuotando il senso della comunità.

E invece noi vogliamo, anzi dobbiamo poter dire a ogni persona — a ciascuna, senza eccezione — che è unica, speciale, che è degna di cura. Dobbiamo prenderci cura delle persone non nonostante le loro fragilità, ma proprio per quelle fragilità. Perché ciò che a volte chiamiamo debolezza è, in realtà, una bellezza diversa, autentica.

Noi ci battiamo per questo. Per chi resiste in tante parti del mondo, dall’Ucraina, alla striscia di Gaza, al Sudan, fino alle donne in Iran e in tutti i luoghi lontani e così vicini a noi da essere magari di fronte a casa nostra, in cui le donne sono schiacciate in modo silenzioso da un patriarcato prepotente e perbenista. Noi ci battiamo per chi  resiste a Caivano, non riducendo quel luogo al nome di un decreto, ma a un contesto di resistenza civile e sociale da parte di chi lavora, perché come dice papa Francesco “occorre investire in bellezza laddove c’è più degrado, in educazione laddove regna il disagio sociale, in luoghi di aggregazione sociale laddove si vedono reazioni violente, in formazione alla legalità laddove domina la corruzione”. Noi ci battiamo per questo, ci battiamo contro l’assenza di futuro che vediamo nel discorrere del pensiero pubblico, con la conseguenza che sta venendo a mancare la consegna generazionale di un discorso e di un pensiero attrattivi sul futuro, come quello dei giovani che hanno fatto la Resistenza. 

Ci battiamo ogni giorno, felici di farlo, felici di cadere, di rialzarci, felici anche di lasciare sempre qualcosa in eredità.

Viva l’Italia libera, viva l’Italia antifascista, viva la Resistenza di ieri. Viva la Resistenza  di oggi. 

 

Andrea Virgilio

sindaco di Cremona

 

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