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Il Capitolo VI di Forte Apache e dintorni (Antonio Grassi, Grafica Gm, 1998) narra la storia del referendum contro la localizzazione dell’inceneritore in zona San Rocco a Cremona e del suo tradimento da parte dell’Amministrazione comunale.  (Nella foto centrale i referendari seguono lo spoglio nella sede della Lipu).

Correva l’anno 1994, trent’anni fa.

Nel capitolo vengono raccontate le giornate del 18 giugno, giorno della vittoria, e del 28, quello del tradimento da parte del Consiglio comunale..

Il quesito sulla scheda era il seguente «Volete voi che sia revocato il comma 6 del dispositivo della delibera consiliare numero 335-prot.41330 del 9 luglio 1991, ove si approva la localizzazione dell’impianto per il trattamento dei rifiuti ospedalieri, solidi urbani, assimilabili agli urbani della città e della provincia di Cremona, in località San Rocco, nel sito D accanto alla discarica a sud-est della cascina Cavalletto?».

Il quesito aveva ricevuto il nulla osta dei garanti, i docenti universitari: Enzo Balboni, Ernesto Bettinelli, Giuseppe Di Giovine

Se il cittadino fosse stato contrario alla proposta dell’amministrazione comunale, quindi all’ubicazione dell’inceneritore a San Rocco avrebbe dovuto votare . Se favorevole, la croce sarebbe dovuta finire sul No.

I protagonisti citati nelle pagine riportate

 Bruno Poli, leader di Cremona Pulita, viene chiamato anche Ho Chi Minh.

Alfeo Garini, sindaco. 

Giuseppe Tadioli, vicesindaco.

Luciano Pizzetti, segretario provinciale Pds

Uliana Garoli, presidente della commissione comunale per il referendum

Gian Ezio Dolfini, consigliere comunale Partito Repubblicano

Claudio Fedeli, movimento sociale-Destra nazionale

Mario Pedrini, consigliere comunale Lega

Federico Balestreri, presidente di Cremona Pulita.

Giuseppe Gigliobianco insieme a Poli e Balestreri presenta la richiesta di referendum

Daniela Polenghi, segretario Federazione rifondazione comunista.

Luigi Quadri, assessore comunale verdi

Mario Bini, leader degli autonomi

 

Forte Apache e dintorni (da pagina 137 a 144)

Arrivò il grande giorno, il 18 giugno. Poteva essere definito in cento modi: della verità, del giudizio, della paura, dei numeri, della conta, della partecipazione. Nessuno lo classificò per quel che in realtà era: l’ultimo atto per rimuovere l’unico ostacolo rimasto su un percorso deciso da molto tempo e da molto tempo diventato immodificabile. Se si vuole essere brutali, era l’ultimo atto inutile di una storia utile e già definita.

L’Italia debuttò a New York nel campionato mondiale di calcio. La nazionale di Arrigo Sacchi fu sconfitta 1 a 0 dall’ Eire.

Il 18 giugno gli schieramenti in campo erano i seguenti: il «» annoverava tra le sue fila: Wwf, Greenpeace, Leal, Lav, Una, Cremona Pulita, Forza Italia, Lega, Rifondazione, Club Pannella, Pri, Ccd, An, ognuno con motivazioni diverse.

Il «No» allineava: Pds e Ppi. Nella squadra potevano essere inclusi anche industriali e giovani industriali. 

La «Libertà di voto» comprendeva: Psi e Verdi. 

Poi c’era il partito del «non voto». Si rispecchiava nelle parole pronunciate da Luciano Pizzetti nei giorni precedenti la consultazione: «Referendum truffa e inutile perché è solo una campagna politica che non ha nulla a che fare con la tutela dell’ambiente, della salute e con la partecipazione». 

I seggi vennero aperti alle 7. Furono chiusi alle 22. Avevano diritto al voto 64.224 cittadini. II quorum necessario per la validità della consultazione aveva la lancetta su 32.113 votanti. Fu un giorno di passione.

Cielo nuvoloso. Mattinata fiacca. Pomeriggio da cardio-palmo. Previsti, per la statistica e per monitorare l’andamento dell’affluenza alle urne, tre momenti di raccolta dati. Ne furono effettuati cinque. 

Le due rilevazioni extra vennero predisposte alle 19 e alle 21. La novità diede vita ad un piccolo giallo: nessuno seppe mai chi l’avesse commissionata. Molti sospetti sul (sui) mandante (i) e sui motivi del cambiamento di programma. Nessuna certezza.

Sibillino Bruno Poli dichiarò: «Sappiamo noi da chi viene l’ordine». La polemica infiammò la serata. Verso le 21 giunse la notizia: «Il quorum è raggiunto e superato: 51,05 per cento». Mai tanta adrenalina fluì nelle vene dei protagonisti di ambedue gli schieramenti della campagna referendaria, anche se per motivi antitetici. 

Quel 51,05 per cento era la conferma che gli extraterrestri esistevano: il contatto c’era stato. ET non era solo un film di Spielberg.

Davide ancora una volta aveva sconfitto Golia. Alle 22 avevano risposto all’appello 35.828 cremonesi, il 55,76 per cento. Il quorum era stato sotterrato da un Tir di schede.

Poi lo spoglio e allora i Comitati referendari toccarono il cielo con un dito e salirono ancora più su, più in alto, in galassie inesplorate dove l’Enterprise non era ancora giunta. 

Dissero «» 20.338 cittadini elettori, il 58,01 per cento; votarono «No» 14.757 elettori (41,99 per cento).

Le schede bianche furono 376 (0,58 per cento); le nulle 292 (0,45 per cento). Il referendum era valido. Il «Si»> aveva vinto. San Rocco era, in teoria, fuori gioco. Out.

La partecipazione era realtà, ma anche quel «» era una delega. I comitati lo scoprirono poche settimane dopo e, ancora meglio, alcuni mesi più tardi. Quando si trattò di combattere in prima linea, il popolo disertò.

Tito Livio, che in storia fu un maestro indiscusso, aveva capito ogni cosa centinaia di anni fa. «Nulla vi è di più incerto e di meno stimabile dell’animo delle folle». Ingenui e ebbri della vittoria referendaria, i comitati non credettero a Tito Livio.

Al contrario, gli avversari gli diedero molto credito.

Agirono di conseguenza. Con ottimi risultati.

I vincitori festeggiarono nella sede della Lipu, in via Gioconda, a due passi dal centro elaborazione dati del Comune. A raffreddare gli entusiasmi ci pensò Luciano Pizzetti con un commento a caldo. Appena terminato lo spoglio dichiarò: «E’ una grande vittoria per il buon senso e la razionalità. Solo un terzo dei cittadini cremonesi si oppone alla realizzazione del termocombustore nel sito indicato dagli studi. Da questo referendum viene un incoraggiamento all’Amministrazione a procedere nella realizzazione dei suoi programmi. Ventimila cremonesi non possono impedire di costruire l’inceneritore per quanto siano significativi per porre una maggiore attenzione sul tempo della gestione dell’impianto fornendo il massimo delle garanzie».

Con una abilità di prestigiatore il segretario del Pds aveva arruolato nel  «No» i cittadini che non si erano recati alle urne. In base a quale principio non fu dato di sapere. Ancora adesso rimane un mistero. 

Se si fosse tenuto buono il ragionamento di Pizzetti e si fosse considerata l’affluenza alle urne degli americani, anche il presidente degli Stati Uniti sarebbe stato delegittimato. Ultimo, ma non ultimo, Pizzetti dimenticava che le regole del referendum erano state approvate dal Consiglio comunale ed erano state rispettate alla lettera.

Con la sua dichiarazione lo stratega della Quercia, mise in discussione le capacità del Consiglio comunale di elaborare norme e regolamenti, svilì lo strumento stesso della consultazione popolare, ridicolizzò tutte le dichiarazioni inneggianti a Cremona prima città d’Italia capoluogo di provincia ad avere il referendum e affossò i bei discorsi sulla partecipazione.

L’altra faccia della medaglia fu la lucidità, la freddezza, la capacità di Pizzetti di battere tutti sul tempo. Il segretario del Pds dettò il comportamento della maggioranza consiliare. Fu seguito alla lettera. 

Il Comitato ambiente e sviluppo, quello del «No», si riunì il 22. Con i dovuti distinguo sposò la tesi pidiessina.

La teoria dell’arruolamento degli astenuti nel no scandì l’ultima fase del percorso referendario: la discussione del risultato in Consiglio comunale.

 Potevano essere imboccate tre strade: deliberare la revoca dell’oggetto di consultazione popolare; fingere che nulla fosse successo e passare oltre; nominare una commissione che presentasse, entro trenta giorni, una proposta di revoca, anche parziale, della delibera bocciata dal referendum.

Morale alto per i tifosi di calcio. Il 23 giugno ai mondiali americani l’Italia sconfisse per 1 a 0 la Norvegia. Morale alle stelle per gli ambientalisti. Il Consiglio comunale di Piadena respinse per sempre e all’unanimità il progetto dell’inceneritore di pneumatici usati. Tra gli interventi più duri, quelli dei consiglieri Pds.

Il forno di Cremona era il sacro Graal. Per averlo, la maggioranza consiliare era disposta a mettere in cantina il risultato del referendum. Pds e alleati non indietreggiarono un centimetro dalle loro posizioni. Negli ultimi mesi avevano collezionato una serie impressionante di batoste, ma passarono come acqua fresca sul granito. Non procurarono un graffio all’inossidabile volontà di realizzare l’inceneritore. Nella tenacia erano simili agli avversari. 

Per il Pds furono giorni importanti. Il partito venne consultato dalla segreteria nazionale per scegliere i candidati alla sostituzione di Achille Occhetto. A Cremona parteciparono 125 iscritti. Optarono per Walter Veltroni: ricevette 77 segnalazioni contro le 29 di Massimo D’Alema.

Il Consiglio comunale fu convocato per il 28 giugno. Lo stesso giorno sul quotidiano La Provincia uscì la terribile lettera aperta di Federico Balestreri ai consiglieri comunali. Nel pomeriggio l’aula consiliare era piena come un uovo. L’avvenimento fu di quelli che si raccontano agli amici. Caldo insopportabile. Pubblico inquieto. Un coro «Buf-fo-ni, buf-fo-ni». Vigili e Digos all’erta. Ultras del «» con cartelli e striscioni. In prima fila Giuseppe Gigliobianco e Bruno Poli: per regolamento i rappresentanti del Comitato promotore potevano intervenire per un tempo massimo di 15 minuti. Momenti critici.

Mario Bini, dopo avere gridato la sua rabbia e lanciato la sfida: «Occuperemo l’area», fu accompagnato fuori dall’aula. In quel momento la parola era a Giuseppe Tadioli.

Gigliobianco chiese il rispetto del Referendum. Poi il microfono passò ad Ho Chi Minh. Con una interpretazione shakespeariana, chiamò in causa sindaco e vicesindaco.

Li definì uomini d’onore e li invitò a non tradire la volontà popolare. Strappò anche gli applausi del pubblico quando, alla fine del tempo a disposizione, tuonò contro «i ladri di verità, di giustizia, di democrazia».

All’inizio della seduta erano presenti 30 consiglieri su 40.

Si passò alla discussione dell’ordine del giorno presentato dai capigruppo di Pds e Ppi. Era un documento lungo e articolato con il quale il Consiglio decideva di infischiarsene del risultato del referendum. Le motivazioni addotte per giustificare la scelta non erano tutte pertinenti. E questo é un giudizio personale.

Il Pizzetti-pensiero emergeva in maniera netta e inconfondibile. Il testo enunciava: «complessivamente dal voto emerge che di fatto un terzo di tutti i cittadini cremonesi aventi diritto al voto ha trovato ragioni sufficienti per manifestare apertamente con un ‘Si’ una posizione di contrarietà». 

Il passaggio più curioso era il seguente: «Il voto porta dentro di sé anche i segni evidenti del famoso ‘effetto Nimby’, ampiamente studiato nella letteratura sociologica e politica, evidenziato dal fatto che sono le zone Sud interessate all’insediamento che si esprimono contro, mentre le zone Nord si esprimono a favore e un centro città, meno direttamente motivato, si esprime con un voto le cui percentuali appaiono più equilibrate». 

Tanto di cappello all’intervento di Uliana Garoli. Disse senza reticenze: «Sappiamo bene che non tutte le scelte di una Amministrazione sono popolari. Questa è una di quelle. Ce ne assumiamo la responsabilità». 

Gianezio Dolfini sconvolse l’assise con la richiesta di precisazioni sulla titolarità dell’appalto.  La curiosità rimase inevasa.

L’ordine del giorno fu approvato: favorevoli 21; contrari 6; astenuti 1. Al momento della votazione il numero dei consiglieri si era ridotto a 28.

Avevano lasciato l’aula Claudio Fedeli e Mario Pedrini. Il 28 giugno non vinse la democrazia, ma la ragion di stato.

Vinsero i partiti e non i cittadini. Vinse il centralismo e non la partecipazione. Così va il mondo. Questo mondo «freddo, illuminato solo a metà, dove accadono sempre le cose sbagliate e mai quelle giuste». Impagabile Marlowe. Disincantato e romantico.

Il 28 giugno andarono tutte storte. 

I referendari rimasero sbigottiti per la scelta di Luigi Quadri, verde, assessore e convinto sostenitore sia del referendum, sia del «».

 II suo voto a favore della mozione della maggioranza ebbe l’effetto di una diga rotta, di un terremoto, di un ufo sbarcato sulla terra. Era la contraddizione fatta realtà. 

Daniela Polenghi fu spietata. Commentò: «Propongo una medaglia alla coerenza per l’assessore verde Quadri. Una persona che firma il referendum, che vota ‘Si’ e pochi giorni dopo vota a favore del sito bocciato dal referendum, la merita realmente. Saremmo molto contenti che ci ricambiasse con le sue dimissioni». 

Quadri ammise: «Avrei preferito un finale diverso». Troppo tardi. Ai lavori partecipò anche l’incazzato Giove. Fece sentire la sua voce con un paio di tuoni. Poi aprì le cateratte e Cremona fu innaffiata, ma l’afa non diminuì.

Gli Autonomi in fondo all’aula consiliare raccontarono, campioni di sintesi, la storia della consultazione popolare con una frase: «Referendum del 18 giugno, ovvero quando la democrazia diventa un optional». 

Quel giorno fu gettato il seme di Forte Apache.

Era ancora il 28 giugno quando il Consiglio comunale di Casalmaggiore approvò un ordine del giorno contro l’elettrodotto. L’Italia ai mondiali pareggiò 1 a 1 con il Messico.

Il 29 giugno il cremonese Sergio Cofferati fu incoronato nuovo segretario Cgil. Il 30 giugno si dimise il Consiglio di amministrazione della Rai. Terminò l’era dei Professori.

Il primo luglio Massimo D’Alema fu eletto segretario del Pds. Ottenne 249 voti contro i 149 di Walter Veltroni. I referendari non ebbero spazio per le lacrime. Entrarono in campo gli indiani. Accadde l’imponderabile.

Sull’Amministrazione piombò il Forte. Nessuno lo aspettava. 

Come il cavaliere pallido, come l’eroe della frontiera, come l’uomo mandato dal destino arrivò, terminò la sua missione e se ne andò.

Il finale fu diverso da quello dei film. Niente happy end. L’impegno del Forte non fu sufficiente a cambiare la direzione del vento. Non era più tempo d’eroi, di cavalieri, di uomini del destino. 

Era tempo della politica decisionista e cinica che prendeva a modello i consigli di amministrazione, che considerava i costi/benefici l’unico Dio a cui sacrificare l’agnello, che vedeva nel dissenso un fastidioso contrattempo da sistemare in quattro e quattr’otto. 

Gli indiani provarono a smuovere lo stagno. Tutto era già scritto e non poteva essere modificato. Quelli del Forte furono gli ultimi moicani e la loro storia, se siete arrivati fin qui, già la conoscete.

L’11 luglio il Consiglio comunale, cambiò di nuovo le carte in tavola: cancellò le dimissioni annunciate.

L’Amministrazione avrebbe continuato fino alla scadenza naturale. La buriana era passata e in politica le promesse, le dichiarazioni d’intenti, i buoni propositi, valgono come le dichiarazioni d’amore e di fedeltà di un marinaio.

Niente era successo. Ai mondiali di calcio Roberto Baggio portò l’Italia in finale. Questo contava. In Algeria era una carneficina.

 

Antonio Grassi

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