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E’ una pianta erbacea secca, dallo sviluppo ampio, alta fino a 2 metri (foto 1 centrale). I fusti generalmente bianchi, un po’ arrossati verso la base,è apparentemente insignificante, come tante per un profano; un’infestante, non proprio. L’ho vista casualmente ai bordi della strada, un giorno di giugno. Una malerba, in un certo senso. 

Era tanto che non la vedevo, era tanto che avevo smesso di cercarla quando d’improvviso mi comparve in una “stazione” nuova. Passavo di lì per caso.  Data comune in tutt’Italia, dalla pianura fino ai 1500 metri, in realtà i miei riscontri non erano stati così frequenti, anzi.  Al momento non potevo crederci, era lei o non era lei? Scesi un attimo; non avevo tempo per le foto. Si era proprio lei. Fantastica!

Ci tornai dopo non molto per fotografarla, sperando che non l’avessero tagliata. No, c’era ancora, meno male.

KibrotTaavà nel libro biblico dei Numeri, significa “sepolcro dell’ingordigia”. Lì avvenne un episodio tanto prodigioso quanto drammatico. Gli Ebrei sperduti nel deserto si lamentarono con Dio per la fame e Mosè supplicò Dio di non lasciarlo solo a sfamare tutto quel popolo. Perciò accadde che un enorme stormo di quaglie venendo dal mare si abbattè sull’accampamento. Allora gli ebrei ne fecero incetta divorando con voracità i volatili ma Dio per questa condotta si infastidì e per punizione fece strage del popolo, donde il nome del luogo.

Ma conosciamo meglio la nostra pianta, di che si tratta? Un’Ombrellifera (Apiacea) a prima vista.

Tante bellissime infiorescenze ad ombrella da 10 a 20 raggi all’apice di steli nudi scanalati e coi piccoli fiori bianchi più o meno incisi a metà (foto 2) che ricordano un po’ la carota selvatica (Daucus carota L.) e soprattutto, per le foglie, il prezzemolo. Ecco le foglie (foto 3) divise in segmenti opposti profondamente incisi e via via ristretti verso l’apice. 

Visto che entrambe le piante hanno i fiori bianchi (un po’ verdi nel prezzemolo), si possono morfologicamente confondere, ma c’è un elemento che impedisce assolutamente di scambiarle, l’odore. Aromatico nel prezzemolo, nauseabondo a dir poco, di orina di gatto o di topo, in quest’altro  esemplare. Anche il sapore ha un valore dirimente, perché è urente nella nostra finora sconosciuta, cioè dà un bruciore immediato sulla lingua alla masticazione. Bisogna stare attenti però col prezzemolo Petrosilenum crispum (Mill.) Fuss perché mentre le sue foglie sono edibili, i fiori invece sono tossici. Questa pianta che io avevo trovato, invece, di tossico ha proprio tutto, anzi è considerata una delle piante più velenose del mondo vegetale, tant’è che era molto usata dagli antichi, mescolata con altre erbe, per dare la morte ai condannati.

Trattasi nientemeno che della famosa Cicuta maggiore, scientificamente Conium maculatum L. subsp.maculatum detta anche Cicuta di Socrate perché l’antico pensatore ateniese fu una delle sue  vittime più illustri.

E in particolare della pianta le parti più tossiche sono i frutti acerbi, verdi,  (foto 4): eccoli ravvicinati un po’ panciuti verso la metà, con la superficie esterna vistosamente costolata, e un cappuccio all’apice, Questi sono primaverili, verdi, i più pericolosi, perché contengono la maggior quantità di alcaloidi neurotossici, in particolare la coniina, assieme alle foglie verdi giovani, i germogli.

Dal punto di vista etimologico, il significato della parola di genere è controverso; un’ipotesi tra le più accreditate lo farebbe derivare dal greco conào giro attorno, in riferimento alle vertigini che può provocare; il nome di specie maculatum invece deriva dalle macchie rosso vinose presenti soprattutto sui fusti (foto 5). Quali sono dunque i sintomi del suo avvelenamento? Innanzitutto compaiono rapidamente dopo 15 minuti dall’ingestione e sono digestivi: nausea, vomito, diarrea seguiti da grande spossatezza e una progressiva paralisi ascendente che dagli arti inferiori sale fino ai muscoli diaframmatici portando ad un’asfissia mortale. Un effetto simile al curaro, altro potente veleno naturale usato dagli indios dell’Amazzonia per le loro frecce.

La morte di Socrate fu descritta da Platone nel Fedone e i motivi per cui fu condannato a morte dai capi dei suoi concittadini ateniesi, assolutamente pretestuosi, furono l’aver corrotto i giovani, l’aver rifiutato le divinità locali per abbracciarne di nuove e infine, quello meno ideale e più pragmatico, l’aver chiesto la pensione! Sì, una sorta di premio che gli consentisse di vivere per avere educato tanti giovani nella sua vita. Socrate poteva scappare, ma non lo fece nel rispetto di quella giustizia in cui credeva pienamente, anche se pronunciò contro di lui una sentenza profondamente ingiusta. Egli ingurgitò allora il veleno “senza fiatare”. E’ interessante ma inquietante al tempo stesso la tradizione secondo cui nell’isola greca di Ceo, vigeva un’usanza secondo cui gli anziani, per non gravare economicamente sui figli, organizzavano banchetti a base di cicuta, per attuare il suicidio collettivo.

Pianta protetta a livello nazionale, l’avvelenamento umano accidentale è raro. Anche gli animali ne possono morire, ma gli erbivori hanno imparato a prenderne le distanze. C’è tuttavia un tipo di avvelenamento del tutto peculiare, che riguarda anche l’uomo, e che tocca uno dei misteri più affascinanti e al tempo stesso sorprendenti della tossicologia naturale. E cioè un avvelenamento  mediato che metaforicamente potremmo chiamare “la vendetta delle vittime”, altrimenti esprimibile nel seguente modo: “ Tu mi ammazzi, e io ti ammazzo dopo la mia morte”!?  Ma come? A quale arcano ci troviamo di fronte, visto che il fenomeno è vecchio quanto la nascita dell’uomo?

Ci sono degli animali che sono assolutamente immuni dal suo veleno e oltre alle lumache sono soprattutto i volatili: tordi, allodole, coturnici e quindi quaglie. Questi uccelli se la possono tranquillamente mangiare, soprattutto i germogli in primavera, periodo da noi di maggiore pericolosità, senza patirne alcuna conseguenza ma anzi accumulando il veleno nelle carni e in particolare nel ventriglio.. Un veleno che tra l’altro resiste al congelamento, alla frollatura e alla cottura per cui se queste carni vengono ingerite, possono essere anche fatali. Una sorta di avvelenamento naturale detto coturnismo ed è ovvio che le sue principali vittime, da noi soprattutto negli anni ottanta del secolo scorso, furono i loro carnefici, cioè i cacciatori e le loro famiglie. Attualmente casi sono segnalati in Francia e in Africa. 

Immediato il collegamento  all’episodio biblico precedentemente descritto. Ma allora? In effetti si pensa che essendo questi uccelli dei migratori, le quaglie del Sinai non portarono a morte per punizione divina, ma per avvelenamento da cicuta ingerita dai volatili. Le rotte migratorie e i periodi di spostamento consentono non solo di localizzare l’area del Sinai in cui il fatto avvenne, ma anche di definire la sua cronologia. 

Le quaglie svernano in Africa e migrano in Europa all’inizio della primavera attraverso diverse rotte a partire da agosto, quelle che dalla Grecia arrivano sulle coste del Sinai, per cui si può pensare che l’episodio biblico sia avvenuto nel nord del Sinai tra agosto e ottobre. 

Ma un aspetto ancor più sconvolgente è che il coturnismo, oltre ai sintomi già descritti, può portare ad una rabdomiolisi acuta  ovvero una necrosi devastante della muscolatura striata con secondaria insufficienza renale acuta che si aggiunge alla paralisi respiratoria come causa di morte. Rabdomiolisi che abbiamo sorprendentemente trovato come causa di morte da funghi fino a pochi decenni or sono venduti tranquillamente nei mercati in quanto ritenuti sicuri e commestibili. Mi riferisco a un avvelenamento  mortale collettivo  di  Tricholoma equestre ( L.: Fr.)P. Kumm.1871 consumato lungo la costa occidentale della Francia. Da quel fatto il fungo fu ritirato dai mercati. Motivo presumibilmente dovuto alla sovrainfezione del fungo da parte di micromiceti (muffe) .

In entrambi i casi soggetti tipicamente commestibili che si sono rivelati vettori di avvelenamenti fulminanti, il che dovrebbe indurre a una particolare cautela rispetto a tutto ciò che consumiamo in natura. Non rimane a questo punto che soffermarci con ammirazione e rispetto sulla suggestione magica di questa pianta di cui peraltro s’è diffuso un uso omeopatico sul quale però non mi esprimo, ma certo che a guardarla solamente, questa pianta,  nessuna punizione divina ci colpirà. (foto 6/7/8/9).

Stefano Araldi

 

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