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GLI EDITORIALI DI ADA FERRARI

C’è anche lui, l’ Occidente, fra le parole più spesso evocate nelle alluvionali chiacchiere in corso su guerra, pace, riarmo e così via. Ovvio peraltro che la lingua batta dove il dente duole. E il tasto Occidente duole in effetti da tempo. Da più tempo di quanto comunemente si creda. Nel lontano 1914, vigilia del primo conflitto mondiale, il filosofo tedesco Spengler già ne decretava il tramonto. E proponeva una provocatoria idea della storia come succedersi di civiltà che, al pari di qualsiasi organismo vivente, nascono, crescono e, a pienezza raggiunta, si avviano a inevitabile declino cedendo ad altre la fiaccola di avanguardia del progresso. Questione astrattamente intellettuale? Non direi, visto che la stiamo vivendo sulla nostra pelle e ci è letteralmente esplosa fra le mani nelle fragilità e incertezze strategiche di un continente che, gigante economico ma nano politico, affronta con crescente disagio la più basica e cruciale delle domande identitarie: ‘chi sono, da dove vengo, cosa voglio’.

Non scriverei forse queste righe se non mi fossi imbattuta nella mini serie televisiva che Rai 1 ha recentemente dedicato a “Miss Fallaci”. E, più precisamente, alle iniziali tappe della carriera che ne avrebbe fatto la stella di prima grandezza nel giornalismo mondiale del Novecento, ma anche l’osannata e odiata paladina di un Occidente che, nel provocatorio saggio del 2001, “La rabbia e l’ orgoglio”, accusò di debole risposta al terrorismo islamico e ai rischi di un assalto migratorio in grado di minacciare i valori storici della nostra civiltà.

A serie televisiva conclusa, direi che la funzione narrativa appare clamorosamente mancata. Abbiamo visto la giovane donna di bizzarro carattere e glamour da copertina, la fumatrice accanita, l’ innamorata afflitta da ossessiva passione per il collega Pieroni, intimorito e intimidito dalla sua travolgente dedizione. Se l’intento era umanizzare il mito Fallaci mostrandone le umane fragilità, è fin troppo riuscito. Ma con discutibile costo sacrificale. È stato raccontato quel che Oriana ebbe in comune con milioni di donne, a cominciare dal doloroso appuntamento mancato con la maternità, ma non quello che aveva di diverso, originale e solo suo. Nessuna traccia e presentimento della futura grandezza professionale alimentata da un carattere che, nelle luci e nelle ombre, fu di eccezionale spessore. Se spesso si commette il famoso errore di buttare il bambino insieme all’acqua del bagno, qui s’è fatto di peggio.Tenuta l’acqua, si è buttato il bambino. Abbiamo visto i deliziosi cappellini francesi portati con innata grazia, ma non quello che sotto andava maturando, nessun sentore di quella visione del mondo che, già in costruzione nella quattordicenne staffetta partigiana, avrebbe indissolubilmente legato la sua avventura umana e professionale alla causa della libertà, ovunque fosse minacciata o negata ai quattro angoli del pianeta.

Ci hanno proposto una mondana ‘Orianina’ giornalista d’assalto a proprio agio nello star sistem hollywoodiano, ma il racconto s’è fermato prima che Orianina diventasse la guerriera Oriana. L’ interlocutrice di Golda Meir, Arafat, Gheddafi, Kissinger, la compagna di Panagulis, eroe della resistenza greca contro il regime dei Colonnelli, la protagonista, coraggiosa non meno che teatrale, del provocatorio togliersi il velo di fronte all’immam Khomeini che stava intervistando. Una irripetibile combinazione di coraggio e narcisistica consapevolezza del proprio fascino: quanto di più indigesto per l’angusto moralismo di quel ‘politicamente corretto’ che ancora non s’è deciso a sdoganare la sua ingombrante icona. Tant’è che tutt’ora giace in terra sconsacrata, inchiodata all’ accusa di intolleranza razzista: la più schiacciante e inamovibile delle pietre tombali. Specie per chi, come lei, fu autentica cittadina del mondo e indagatrice curiosa delle sue diversità. Solo prossima alla fine, lasciò la casa newyorkese per tornare nella nativa Firenze, la piccola patria dall’immensa storia di universale respiro. E credo che proprio a Firenze occorra guardare come più illuminante chiave per accedere a una personalità dai tratti in parte comuni ad altri giganti della carta stampata fiorentini come lei: da Indro Montanelli a Giovanni Spadolini. Nature egocentriche, elegante divismo, intelligenze spontaneamente seduttive.  Oriana Fallaci fu occidentale, europea, italiana ma col valore aggiunto, o se si preferisce l’aggravante, di essere fiorentina. Razza a parte, che nel corredo caratteriale di orgogliose consapevolezze e sanguigne passioni rende in fondo onore a origini parecchio impegnative. Quando hai nel DNA quel ben di Dio che fu la Firenze dei Medici, miracolosa concentrazione di attitudini in ogni campo portate all eccellenza del genio, non ti è concesso avere sangue annacquato. O dimenticare che per qualche secolo nel potente magnetismo del microcosmo fiorentino l’intero universo si è rispecchiato. Più volte mi è capitato di pensarlo, onorata in anni lontani dalla frequentazione di Giovanni Spadolini.

Ricondotte le cose a questa prospettiva non stupisce che la difesa di un patrimonio di civiltà minacciato nelle sue fondamenta materiali e ideali da aggressivi fanatismi si converta nel sangue amaro della rabbia e dell’orgoglio. Temo dunque che agli zelanti custodi del buonismo offeso sfugga il vero nocciolo della questione Fallaci. Cioè che ‘la rabbia e l’orgoglio’ altro non sono che l’ altra faccia dell’amore.

 

Ada Ferrari

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