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Uno degli alberi ornamentali dai fiori più belli e maggiormente rappresentati a luglio nei giardini, lungo le vie di Cremona e dintorni, ha un nome scientifico che è un vero e proprio scioglilingua: Lagerstroemia indica L , nota volgarmente come Mirto crespo. (foto centrale) 

Le sue denominazioni aprono interessanti capitoli che meritano di essere approfonditi, a partire  dall’etimologia. 

Il nome di genere Lagerstroemia fu attribuito dallo svedese Linneo (1701-1778), uno dei più  importanti botanici dell’epoca moderna, all’amico e connazionale Magnus von Lagerstrom (1691- 1759), direttore della Compagnia delle Indie Orientali, che portò in dono a Linneo qualche  esemplare della pianta prelevato dall’India, donde il nome di specie indica, benché originaria del  sudest asiatico. Mai von Lagerstrom avrebbe immaginato che quella pianta sarebbe stata chiamata  col suo cognome; e tuttavia, perché Indie orientali? 

Perchè il motivo principale che spinse Cristoforo Colombo a compiere la traversata dell’Oceano Atlantico, fu quello di trovare una via più breve per le Indie, e quando giunse ai Caraibi rimase  convinto fino alla morte di aver raggiunto la meta. Fu Amerigo Vespucci, successivamente, a capire  che si trattavano di terre nuove che pertanto a lui furono dedicate col nome di America. 

Per Indie orientali si intendevano le isole dell’arcipelago malese (Indonesia, Filippine..) e per  estensione i territori circostanti. Per Indie occidentali, invece, le isole caraibiche, quelle scoperte  da Colombo. 

Le Compagnie delle Indie erano società di capitale a cui i vari Stati conquistatori conferirono il  monopolio del commercio nelle colonie, ma quella svedese delle Indie occidentali von Lagerstrom  non la conobbe, perché mori prima della sua costituzione. 

Riguardo al termine Mirto crespo, esso sembra proporre un equivoco e cioè che il primo dei due si  tratti di un nome comune introdotto per qualche affinità banale, e invece è talmente importante che  ha dato non solo il nome di genere, Myrtus in latino, di cui la specie communis L è l’unica  spontanea in Italia, ma anche quello della famiglia Myrtacee a cui appartiene e dell’ordine  Myrtales che rappresenta il trait d’union tra le due piante. Entrambe infatti appartengono a questo  ordine, ma a famiglie diverse, quella delle Lythracee la Lagerstroemia. 

Non solo, essa fu chiamata anche Murthugas indica (L) Kuntze, in analogia col mirto. 

Ma da dove deriva la parola mirto? Tra le varie interpretazioni, la più “suggestiva” che ho trovato  viene fatta risalire al mito greco di Myrsine, una fanciulla che fu uccisa da un giovane dopo che lei  lo aveva battuto in una gara ginnica. La dea Pallade Atena, allora, impietositasi, la trasformò in  questo arbusto tipico della macchia mediterranea, e dagli splendidi fiori bianco candidi  profumatissimi, metafora dell’innocente purezza violata. (foto 2) 

Anche la Lagerstroemia ha i fiori molto profumati e pure le foglie del mirto, se strofinate, acquistano un gradevole odore, ma non è questo carattere che le accomuna sul piano nosografico. 

Per rintracciare le parti comuni, dobbiamo risalire ai loro antenati. Come già dicevo all’ordine  Myrtales, che per quanto riguarda i petali, non è neppure l’aspetto crespato, donde il nome, bensì  quello clavato , cioè allargato alle estremità, o unguiculato, ovvero bruscamente ristretto alla base  come un’unghia. Un carattere poco appariscente, dunque, ma che è una costante nei fiori di  quest’ordine. Ed è la costanza di un carattere che permette di tracciare una linea nosografica, non la sua esuberanza. 

Sono le foglie, invece, a cui si deve la maggior similarità tra le due piante: semplici opposte o  subopposte, verdi lucide a maturità, coriacee, sessili o subsessili, lanceolato-ellittiche con apice  acuminato e con una profonda nervatura mediana, e altre periferiche, sono alcuni di queste loro  peculiarità che permettono di riunirle sotto lo stesso ordine. (foto 3) 

Eppure, a riguardare i fiori delle due specie, a dispetto delle apparenze, vi possiamo trovare  grandissime similarità. 

I fiori del mirto sono stellati a 5/6 petali bianchi con tanti stami e antere bianche che vi fuoriescono  numerosi. Guardate ora la parte meno appariscente del fiore della Lagerstroemia, quella centrale.  Anche in questo caso troviamo un involucro centrale stellato biancastro con 6 denti acuminati, da  cui escono gli stami con le antere dorate, Due splendide piccole stelle. (foto 4) 

Tuttavia è il colore dei fiori, che varia dal più comune rosa carico ( foto 5,6) al fucsia al viola,  quindi al rosso ( foto 7), dalla fioritura più tardiva e al bianco più raro, ma dello stesso colore dei  fiori del mirto, la caratteristica in assoluto più appariscente. 

Il colore vistoso ha la funzione vessillare che, assieme al profumo, serve per attirare gli insetti  impollinatori i quali accorrono numerosi sopra le generose e ampie infiorescenze racemose che durano a lungo, almeno tre mesi d’estate, a partire dalla seconda metà di giugno. Oltre al colore,  l’aspetto arricciato dei petali (foto 8, 9) si rivela una peculiarità più unica che rara; non è un  semplice vezzo, ma sembra collegato alla necessità della pianta di inseguire la luce in tutte le  direzioni possibili, come la tendenza dei densi racemi fiorali a proiettarsi verso il cielo.  

Soffermiamoci un attimo su questi riccioli fiorali: sembrano ritagli che conferiscono una leggiadra  suggestione. Una stravagante sforbiciata della natura. L’insieme costituisce una delle infiorescenze  più luminose calde e gioiose che possiamo vedere d’estate; ma c’è dell’altro per quanto riguarda i  fiori. Zoomiamo la stella centrale e noteremo dei filamenti rossastri dotati di stipite (foto 10) che  sopravanzano zigzagando in rari elementi tra i numerosi stami più piccoli. Si tratta di stami  anch’essi, in numero di sei, visibili già quando il bocciolo si sta aprendo, smaniosi di uscire come le  zampe di un ragno (foto 11) . 

Scoprendola gradualmente, la Lagerstroemia svela nuove suggestioni, come i boccioli rossastri  all’inizio della fioritura (foto 12), di foggia esagonale e divisi in sei triangoli chiusi, che stanno  accanto a fiori già aperti, ad indicare la diversa temporalità evolutiva anche sulla stessa pianta; e  quindi i frutti (foto 13) , quelle capsule tondeggianti verdastre che escono dai calici a sei punte, rossastri in questa varietà rubra, e divisi in numerosi carpelli, i meridiani della struttura. 

Emerge qua un’intrigante simmetria esagonale della pianta che sembra rimandare alla simbologia  dei numeri. Sei i triangoli che costituiscono i boccioli, ma sei sono anche i petali che si sviluppano  da un singolo fiore e sei gli stami più lunghi fucsia dalle antere solcate da strisce viola scuro che  fuoriscono ampiamente dal calice. Sei infine le aperture a stella del calice. 

Il procedere incalzante ci porta ad altre entusiasmanti scoperte, come i fusti. Trattasi di arbusti o  alberelli alti massimo 9 metri e dall’aspetto slanciato, esile, elegante, aggraziato. Diritti, piegati o  contorti; semplici o ampiamente ramificati a costituire un’espansione chiomata, o a fusti concrescuti dalla base (foto 14) . Al di là della loro bellezza, la caratteristica più stupefacente è che questi fusti  si spellano vivi , vanno cioè incontro a un processo di decorticazione per cui la loro corteccia si  stacca a strati e in tempi diversi, e da grigio chiara marrone e liscia e levigatissima quale è, assume  tinte rossastre  (foto 15) creando un’alternanza di zone chiare e scure che richiama i giochi di luce  dei petali increspati, e lascia immaginare un misterioso invisibile scultore che opera magicamente,  senza che nessuno se ne accorga. 

Non è ancora finita con le scoperte. Mentre ammiriamo l’estate nello splendore della  Lagerstroemia, al di là dei frutti possiamo già apprezzare l’autunno, e che autunno, proprio di  questi tempi, in un bellissimo viraggio cromatico per cui le foglie da verdi lucide diventano,  attraverso diverse gradazioni, di un rosso fuoco (foto 16/17) , in un’alternanza di verdi e di rossi  finché sono sulla pianta, e nel pieno vigore del loro colore caldo, del loro canto del cigno, queste  già cadute a terra. 

Una sorpresa continua, dunque, la Lagerstroemia indica, che spinge ad ulteriori esplorazioni al suo  interno come per l’Amerigo citato, a carpirne qualche altro segreto, per cui la natura ancora una  volta ci stupisce, con formem colori e caratteri vari sempre nuovi, in combinazioni uniche, a  confermarci la sua strepitosa capacità creativa , che difficilmente si ripete monotona nel passaggio  da specie a specie. Al contrario sempre originalmente esuberante.  

 

Stefano Araldi

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