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GLI  EDITORIALI DI ADA FERRARI 

Chi va a messa l’avrà notato: da tempo non si dice più “pace in terra agli uomini di buona volontà” ma “pace in terra agli uomini amati da Dio”. Formula assai meno selettiva e dunque più rassicurante. Evidentemente l’antico adagio ‘Aiutati che Dio ti aiuta’ non gode più delle fortune d’un tempo. Cosa avrà mai fatto di male la vecchia  ‘buona volontà’, base di ogni indirizzo educativo del passato, per finire in panchina? Me lo domando spesso. A maggior ragione dopo il ripetuto allarme di Francesco Martelli riguardo a una cultura del lavoro e dei mestieri  palesemente ridotta a fanalino di coda nelle consapevolezze e negli interessi collettivi. Come se l’argomento lavoro distraesse da quel che veramente conta: il tempo libero nelle infinite declinazioni abilmente suggerite dal traino pubblicitario e mediatico. 

Mica semplice peraltro affrontare il tema. Ora che ci provo mi sfugge da tutte le parti,  tirato da due elastici verso opposte conclusioni.  Per tanti giovani e meno giovani in balìa del precariato, un lavoro in grado di metter capo a una decente carriera professionale è quasi inarrivabile miraggio. E se la costruzione della loro identità personale non avviene più attraverso l’esercizio di una stabile occupazione, parlare di lavoro equivale per loro a macinare aria, tanta è l’inconsistenza dell’oggetto. Direbbero invece che il lavoro esiste e pesa fin troppo nella propria storia di vita quanti si vedono impietosamente allungata l’età lavorativa e aspirano ai riti del tempo libero come a un traguardo via via più remoto.

E’ dunque comprensibile che in una fase storica che proprio sul mercato dell’occupazione scarica le sue contraddizioni e le sue fragilità, il nostro immaginario sia sempre meno sensibile ai complessi risvolti umani del lavoro, irriducibile intreccio di sacrificio e gratificazione che fino all’altro ieri appariva al comune buon senso come unica via  d’accesso a una piena dignità civile. Non solo il celebre ‘Penso, dunque sono’ ma anche il più pragmatico e ambrosiano ‘Lavoro, dunque sono’ paiono ormai paradigmi in caduta libera.  Comprendere le ragioni del fenomeno ci obbliga a ignorarne i rischi? Non credo. Convengo.con Martelli  che parecchie insidie covano sotto questa gigantesca rimozione, indizio di non esaltanti modifiche in atto nella cultura e nel costume. Altamente indicativa è al riguardo la traiettoria della Chiesa stessa che negli ultimi anni ha di fatto smobilitato ogni organica dottrina sociale in materia e pare affrontare questa epocale riconfigurazione del problema lavoro in termini sostanzialmente assistenziali. Si assolutizza il diritto degli ultimi e degli esclusi ad avere aiuto, ma si sorvola sul conseguente dovere di esserne, per quanto possibile, meritevoli: il famoso ‘Aiutati che Dio ti aiuta’ che un tempo ci voleva coautori del nostro riscatto. E dire che proprio dalla Chiesa a suo tempo vennero decisive riflessioni circa il valore educativo e non solo economico che l’esercizio di un mestiere riveste nel bilancio della vita umana.

La prima battuta in materia è nota. Nell’originaria perfezione creaturale l’uomo non aveva bisogno di lavorare. Ma, dopo il peccato,  è stato cacciato dall’Eden del tempo libero e costretto a guadagnarsi il pane col sudore della fronte. Visione cupamente penitenziale che ben presto si è aperta a ben altri scenari evolutivi. La famosa ‘Regola’ di Benedetto, non a caso patrono d’Europa, ha regalato a costumi sociali in preda al disordine qualcosa di rivoluzionario quanto l’invenzione della ruota: l’uso razionale del tempo e la disciplinata scansione della giornata in lavoro e preghiera. Quel che fu Calvino per le religioni riformate era stata la Regola benedettina agli albori del Medioevo: una semina di disciplina ed etica della responsabilità indispensabile al futuro decollo di una ammirevole ‘civiltà del fare’.

Ma ecco, secoli più tardi, un successivo snodo: l’avvento della civiltà industriale, molto diversa dai tratti semplici di quell’economia rurale che consentiva di vedere nel lavoro dei campi una specie di prolungamento della preghiera. L’irruzione della macchina e della tecnologia rappresenta un’enorme sfida. Fidarsi o non fidarsi? Ancor più grande sfida è l’esplodere di una questione operaia che sollecita  la Chiesa a dire la sua. Tant’è che già a fine ‘800 varca la soglia della fabbrica, studia i problemi e si esprime su equo salario, lotta di classe, riposo festivo, lavoro infantile e femminile… Iniziava, con la nascita della dottrina sociale, una lunga riflessione sul giusto e l’ingiusto, non astrattamente intesi ma calati nell’aspra concretezza dei rapporti fra capitale e lavoro. E ci si attrezzava con catechesi e linguaggi studiati per i singoli settori: maestri, medici, industriali, operai, giornalisti, scienziati, infermieri, ostetriche e così via…Prendeva forma nel secondo dopoguerra quell’etica delle professioni di cui oggi scontiamo la drammatica assenza. Dall’America rimbalzavano in Europa nuove idee circa il rapporto fra morale e affari. Qualche illuminato magnate scopriva e predicava che l’onestà in affari non giova solo alla salvezza dell’anima ma, alla lunga, anche a quella del portafoglio. E la dottrina sociale della Chiesa completava la sua svolta: il lavoro non era più punitiva schiavitù cui sottostare ma principale ambito di realizzazione delle vocazioni personali.

Erano gli anni in cui nel perimetro geografico della leggendaria civiltà ambrosiana prendeva forma col concorso dei principali attori, Chiesa compresa, un grande progetto di democrazia industriale: azionariato operaio, partecipazione dei lavoratori agli utili aziendali, salario vincolato a produttività e così via. Enrico Falck, colosso dell’acciaio, chiedeva “braccia intelligenti” per un’industria che aveva ormai bisogno di teste non meno che di muscoli. E da Ivrea Adriano Olivetti gettava, coi villaggi operai, le basi di un moderno sogno di ‘umanesimo industriale’. Mai il lavoro fu oggetto di tanta attenzione, rispetto e coraggio sperimentale. Un altro pianeta rispetto all’attuale che lo vede tenuto sotto schiaffo dall’economia di rapina di un profitto finanziario pilotato su scala mondiale da un pugno di burattinai d’alto bordo.

Quale lezione trarne? Che un sistema può osare grandi ambizioni e volare alto solo se può contare su un patrimonio di valori socialmente condivisi che tuttora si chiamano merito personale, disciplina, capacità di sacrificio, orgoglio di lasciare un segno di sè nella corale avventura della civiltà umana. Se questi non vengono adeguatamente presidiati né dalla cultura laica né da quella religiosa, sfarinano e franano abbandonandoci al rischioso ruolo di eredi di una civiltà del fare di cui stiamo godendo i declinanti dividendi  senza esattamente sapere  come e con cosa sostituirla.

 

Ada Ferrari

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