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La Provincia, sgarrupata, sola, un po’ in disarmo, cerca di sopravvivere. Traccheggia. Tira avanti.  Fa quello che può.  Stanca, spompata, sfinita, non è più la certezza di un tempo. O, almeno, non lo è secondo la tradizione e le aspettative dei sindaci. La Provincia è Calimero, il pulcino brutto e nero della pubblicità di un detersivo. Anemica, è senza forze. Con pochi quattrini e dipendenti all’osso, ha abbandonato nel cassetto i sogni di gloria. Volonterosa, non raccoglie soddisfazioni pari all’impegno profuso. Spesso è invitata a recarsi in luoghi meno ameni. Un tempo luccicante, oggi è sbiadita. Smunta.  Quasi spenta, la Provincia è sul viale del tramonto. Non sempre per l’incapacità di amministratori e maestranze. 

Se non c’è trippa per i gatti e il piatto è vuoto, c’è poco da inventare. Se non c’è benzina nel serbatoio e l’auto non è elettrica, si resta al palo. E non tutti sono attrezzati per i miracoli. La Provincia non è una valle di lacrime, ma quella della depressione.

Due date: 2014 e 2016.  Due i responsabili: Graziano Delrio e Matteo Renzi.

Un terzo, più generale: la Politica. Eventuali accuse di qualunquismo e demagogia in questo caso sono respinte al mittente.

La legge Delrio, la numero 56 del 7 aprile 2014, prevede la riforma degli enti locali, l’istituzione delle città metropolitane, la ridefinizione delle Province e la regolamentazione di unioni e fusioni di Comuni. Approvata, non si è perso un minuto. Pronti via e lo smantellamento delle Province è partito a razzo. Tagli draconiani delle risorse finanziarie e drastiche riduzioni del personale.  Ma i conti erano stati fatti senza l’oste. Nell’articolo 114 della Costituzione le Province figurano tra gli enti costitutivi della Repubblica. Per eliminarle serviva un referendum costituzionale.

L’occasione arrivava due anni e mezzo dopo, 4 dicembre 2016. Renzi spediva gli italiani alle urne con l’intento di cambiare alcuni articoli della Costituzione. Tra le novità, l’abolizione delle Province.  Per convincere i cittadini non aveva badato a spese. Aveva  ingaggiato Jim Messina, già capo della campagna elettorale di Barack Obama,  diventato con la chiamata renziana,  fiore all’occhiello della crociata referendaria.

Tu vuò fà l’americano, cantava Renato Carosone, ma gli italiani non sono l’Alberto Sordi   dell’Americano a Roma.   Sfanculano Renzi, che pochi giorni dopo la sconfitta si dimette da capo del governo.   Con lui molla la poltrona anche Luciano Maverick Pizzetti, sottosegretario alle Riforme costituzionali e rapporti con il parlamento e fiero sostenitore della riforma Delrio.

Le Province non vengono abolite. Ma non si torna al passato. I tagli operati prima del referendum dalla scure di Delrio rimangano tali e quali. Non c’è il ritorno allo status quo ante. Le Province vengono abbandonate a se stesse.  Chi ha dato ha dato. Chi ha avuto ha avuto. Le conseguenze nefaste ricadono tuttora sul territorio.  Private di una propria identità e frenate nello svolgimento del proprio ruolo, le Province sono zombi, poco dissimili da quelli descritti dal professor Grimes ne La notte dei morti viventi.

«All’obitorio della nostra università c’era un cadavere, un cadavere a cui erano stati amputati tutti e quattro gli arti, ed ecco che improvvisamente questa mattina ha aperto gli occhi e ha cominciato a muoversi! Era morto, ma ha aperto gli occhi e ha cercato di alzarsi!»

La legge Delrio retrocede le Province a enti di secondo livello. Presidenti e consiglieri provinciali non vengono eletti direttamente dai cittadini, ma da sindaci e consiglieri comunali con il sistema del voto ponderato.  Tradotto: la volontà del singolo sindaco o consigliere non vale uno, ma un numero calcolato in base ai residenti del Comune rappresentato. Il voto del sindaco o del singolo consigliere comunale di Crema o Cremona conta quanto la somma di tutti i voti dei consiglieri di un Comune al di sotto dei tremila abitanti.

È la democrazia dei muscoli.  Delle società quotate in borsa. Ma la Provincia non è una spa e gli azionisti non sono fondi di investimento. È la democrazia del Marchese del Grillo. Della presa per il culo. È la democrazia delle segreterie dei partiti e delle camarille. Delle consorterie e degli accordi sotto banco compresi quelli contro ogni logica di schieramento politico. Di destra e sinistra.  

L’elezione del presidente della nostra Provincia nel 2019 è stato esempio palese e vergognoso dell’assurdità di questo meccanismo elettorale. La vicenda è nota. Pleonastico raccontarla.

Con il voto ponderato, determinare in anticipo il presidente e la composizione del consiglio provinciale è più semplice che risolvere il cubo di Rubik.  È sufficiente un accordo tra i partiti che orienti i voti di Cremona, Crema e Casalmaggiore e di pochissimi altri Comuni e voilà il gioco è fatto. Puff e dalle urne escono i nomi imposti nelle segrete stanze.

È il mercato delle vacche dal quale è esclusa la maggioranza dei votanti, i rappresentanti dei piccoli Comuni, i porta borraccia. I gregari. Le ultime ruote del carro.  Le pedine di un risiko dall’esito scontato, giocato da segretari di partito e da pochi altri ammessi al circolo del caporalato politico. E chissenefrega delle liste civiche. 

In questo contesto la politica è colpevole di indolenza e menefreghismo. Di laissez faire. Tutto questo, nonostante in Parlamento siano stati depositati almeno sei disegni di legge per porre rimedio alla riforma bocciata dal referendum e abortita.

«Dobbiamo prendere atto – spiegava un anno e mezzo fa la senatrice piddina Valeria Valente – che le Province stanno vivendo una condizione anomala sul piano istituzionale e giuridico per l’impossibilità di completare la riforma. A questa situazione va data risposta. Non è pensabile lasciare la governance delle Province in una sorta di ‘sospensione’, di limbo, tenendo conto che esse continuano ad occuparsi di materie circoscritte ma importanti sul piano dell’amministrazione locale» (Il sole 24 ore, 14 gennaio 2023). Parole sante, ma inascoltate. Mai tradotte in atti. 

È innegabile: le Province hanno una responsabilità di prim’ordine.  Quella di Cremona è intervenuta in maniera egregia per la Via per il biometano a san Rocco. Ha competenze per il Cesio 137 (Vittorianozanolli, 19 luglio), ha voce in capitolo sul progetto dell’ex cava di Grumello. E’ coinvolta sulla qualità dell’aria, sulle strade, sui ponti.

Il funerale della legge Delrio non è prorogabile, va celebrato «nell’interesse dei cittadini, della qualità dei servizi che si devono garantire loro.  assicurando allo stesso tempo all’ente Provincia, una legittimazione democratica forte attraverso l’elezione diretta dei rispettivi organi di governo» (Valeria Valente). 

In attesa che alla teoria segua la prassi, si continua a procedere con la riforma scalcagnata.

Il prossimo 29 settembre sindaci e consiglieri comunali saranno chiamati a votare per l’elezione del presidente e del consiglio provinciale di Cremona che, si può scommettere con pochi rischi di perdere, sarà già deciso dai segretari di partito e da qualche loro reggicoda. Circola la voce della possibile presentazione di una lista unica per il presidente. Una melassa.  Non scontenta nessuno e tutti hanno uno strapuntino assicurato. 

L’unicità sarà giustificata con l’ipocrita formuletta «è una scelta per il bene della Provincia».  È la politica fluida, bellezza. È la fine della dialettica e del confronto. Degli ideali. 

Se questo avverrà, sarà l’arca di Noè. Resta il problema di trovare Noè. E in provincia non ce ne sono molti con il carisma e la credibilità indispensabili per interpretare la parte. Per armonizzare cavalli con asini, cani con gatti, pavoni con conigli.  Anzi sono pochi. Pochissimi. Quasi nessuno. 

 

Antonio Grassi

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