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Scaffali dei supermercati pieni di cibo ultraprocessato, pasta e carne a prezzi stracciati, frutta e verdura che hanno viaggiato per di un esploratore prima di arrivare al banco, ma alla fine ‘venghino signori, venghino, che qui lo sconto è imbattibile’. Intanto i negozi di cucina etnica spuntano come funghi, mentre i campi ormai sono destinati a diventare la nuova frontiera dell’industria dell’energia ‘green’, dalle piantagioni di fotovoltaico alle cupole del biogas, nuove cattedrali padane del cemento e del traffico pesante. Fatevi un giro nella bassa cremonese e contate quanti impianti trovate e immaginate quanti ne sorgeranno ancora al posto delle coltivazioni.

Alla lista vanno poi aggiunti gli allevamenti super intensivi. E non dimentichiamo i fanghi chimici, spacciati per fertilizzanti biologici, almeno fino al prossimo scandalo (qualcuno è già finito sulle prime pagine dei giornali). Senza dimenticare le proteste degli agricoltori a Bruxelles nelle ultime settimane sulle quali i media mainstream italiani hanno glissato disinvoltamente per giorni. E non dimentichiamo infine che la pianura padana è una delle aree più inquinate d’Europa.

Avanti così e la cucina italiana resterà patrimonio Unesco solo per i pochi che potranno ancora permettersela, ridotta a mero strumento di marketing per l’industria del turismo, che ammicca a un target estero e alto spendente, che in Italia gode le spiagge, ammira monumenti e gusta il piatto di trippa a prezzi stellari in locali stellati. Un bel parco giochi per ricchi annoiati.

La cucina italiana è punto di arrivo, una sintesi di cultura, materia prima, tradizione e territorio. Quali di questi elementi si stanno davvero tutelando?

Di quale cultura parliamo se tutto viene appiattito e globalizzato tra pokè, kebab e sushi? Quanti dei nostri giovani hanno imparato a impastare la sfoglia o preparare un arrosto, una caponata, le lasagne? Con che cosa produrremo il grana padano se le vacche ora vengono allevate più per produrre escrementi per i digestori che per il loro latte?

Che cosa metteremo a stagionare se i maiali sono stati abbattuti perché in 10 anni nulla è stato fatto per evitare il diffondersi della peste suina?

Con che grano produrremo paste e farine se i campi non vengono coltivati ma diventano centrali elettriche?

Chi tutela veramente i piccoli produttori che allevano e coltivano con enormi difficoltà e con margini di guadagno sempre più risicati? Ricordate quante erano le piccole e medie stalle nel Cremonese negli anni ’80? E quante invece ce ne sono oggi e con quali dimensioni?

E gli ulivi secolari sani abbattuti dallo spettro della xilella?

Potremmo andare avanti. Vista così, la cucina italiana patrimonio Unesco forse rischia di diventare solo una bella spilla da appuntarsi al petto e mostrare fieri a parole mentre nei fatti sabotiamo tutto quello che la rende davvero unica e inimitabile.

Il made in Italy in tavola viene copiato facilmente proprio perché siamo noi i primi ad averlo svuotato della sua eccellenza, per rincorrere altri interessi più immediati ma dei quali forse non si vogliono intravedere gli sviluppi sul lungo periodo.

Che poi, 15-20 anni non sono un periodo poi così lungo, ricordiamocelo.

La nostra cucina non è solo un brand. E’ storia, cultura, identità, tradizione, famiglia, convivialità. E’ colore, sapore, fantasia, anche campanilismo se vogliamo. La cucina italiana in realtà sono cento, mille cucine italiane, migliaia di varianti, ingredienti segreti, grembiuli e mattarelli, storie custodite e tramandate di generazione in generazione. Un po’ come i dialetti e le loro cadenze.

Ricordiamocelo alla prossima inaugurazione di un centro commerciale dove acquistare le arance a prezzi bassissimi o alla prossima autorizzazione all’ennesimo impianto “green”.

 

Michela Garatti

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