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Accingiamoci ora a scoprire e a contemplare una delle piante erbacee selvatiche più spettacolari che le acque delle nostre campagne possono donarci. Acque sì, perché di idrofita (acquatica) si tratta, crescendo ampiamente immersa nei fossati a corso lento, negli stagni: il giunco fiorito. (foto1 centrale).

Le fotografie sono state scattate ai primi di luglio, e con mia grande sorpresa per via di una copiosa apparizione (foto 2/3) a dispetto della sua sempre maggiore rarità.

Un’altra sorpresa ce la dà il nome stesso, giunco fiorito dicevo, perché il giunco vero appartiene a tutt’altra famiglia; del giunco infatti questa pianta non ha assolutamente nulla, o quasi. L’unico legame, dal punto di vista tassonomico, è una piccola foglia primordiale chiamata cotiledone, che avvolge l’embrione alla nascita fino allo sviluppo delle radici e delle prime foglie in grado di compiere la fotosintesi. Una sorta di antenato comune che la colloca nel clado delle Monocotiledoni, cosiddette in quanto di queste foglie ne hanno una sola a differenza delle Dicotiledoni che invece ne hanno due, e che comprende un’ampia varietà di specie, generi, famiglie, ordini e superordini ben diversificati come aspetto e come habitat. 

Si va infatti dalla famiglia a cui appartengono le orchidee a quella delle Graminaceae, che non solo col nostro falso giunco nulla sembrano avere in comune, ma neppure tra di loro. Se poi pensiamo che le Monocotiledoni sono piante molto antiche, che risalgono all’ultimo periodo dell’era Mesozoica, il Cretaceo, risalente a circa 80 milioni di anni, e che pertanto hanno contribuito alla formazione di biomi come le praterie, che proprio nulla c’entrano con la nostra pianta, trovare collegamenti tra piante così diverse, sembrerebbe impresa davvero ardua.

In realtà ci sono altre peculiarità in comune col giunco, al di là della predilezione per l’ambiente acquatico, quali i fiori trimeri, composti da tre tepali o multipli di tre. (foto 4). Il tre, il numero perfetto edil numero sacro quindi magico, la Trinità nella religione cattolica, la Trimurti in quella induista, il che suggerisce una certa reverenza nell’accostarsi a questa pianta, della quale i tre tepali interni, particolarmente ambiti anche dalle formiche (foto 5) sono più grandi e obovati di quelli esterni calicini, più stretti ed affilati. Tutti raccolti in piccole ombrelle rovesciate di 20/30 esemplari, ermafroditi con nove stami e relative antere rosse (ritorna il carattere numerico) e sei ovari fissi alla base da cui sporgono brevi stili (foto 6). Fiori che crescono all’apice di piccoli steli nudi divergenti tra loro, uscenti dalla stessa altezza del fusto principale (foto 7), donde il nome di specie umbellatus. Il colore poi, quel bianco rosato screziato, rende la pianta di una bellezza speciale, di una graziosità unica, particolarmente raffinata.

Nei giunchi invece l’infiorescenza si chiama antela e si caratterizza per i piccoli fusti laterali più lunghi dei centrali; un’infiorescenza per lo più glomeruliforme apicale, sovrastata spesso da una foglia (brattea) terminale che può apparire come un prolungamento del fusto, e superarla ampiamente.

Il nome completo della nostra pianta è dunque Butomus umbellatus L e ci si aspetta che anche il nome di genere, il primo, faccia riferimento alla meravigliosa infiorescenza che ne rappresenta senz’altro la parte più appariscente, e invece no, perché Butomus dal greco bus bue, e temno taglio, significa tagliabue e si riferisce al margine tagliente delle sue foglie che possono ferire gli animali che osano cibarsene. Le piante dunque usano tanti stratagemmi per difendersi: l’odore nauseabondo abbiamo visto per la cicuta, il margine fogliare tagliente per il nostro pseudogiunco.

Foglie tutte basali in cespuglio ricco e subacqueo alla base, un po’ divergenti tra loro, quelle del Butomus, originano da un rizoma, la base del fusto ingrossata, disposto orizzontalmente e strisciante, che sostituisce nella funzione le radici, pure presenti avventizie e fascicolate, e sopravvive d’inverno sommerso, mentre in primavera da esso dipartono tutte le componenti della pianta che rinasce a partire dal fusto nudo che può raggiungere anche i 150 cm di altezza.

Le foglie abbracciano il fusto alla base per metà (semiamplessicauli) avvolgendosi ad elica come un cavatappi, (foto 8) e questo è stato inteso come un segno di riconoscimento precoce della pianta prima dell’antesi, cioè la comparsa dei fiori. Hanno quindi le nervature parallele (parallelinervie) carattere discriminante rispetto alle dicotiledoni che le hanno reticolate, e quindi in comune coi giunchi, le cui foglie possono anche essere basali, in cespuglio denso ed acquatiche, ma solo quelle del Butomus sono sempre immerse nell’acqua; i giunchi infatti possono crescere anche sui margini degli acquitrini o addirittura sulle sabbie in prossimità del mare. Inoltre sono più rigide sottili e pungenti all’apice, a volte simili al fusto. (foto 9 Juncus acutus L.).

Di consistenza spugnosa, triangolare in sezione (altro riferimento alla simbologia numerica), le foglie del Butomus sono alte fino a 100 cm e larghe fino a 10 mm; cilindriche filiformi o nodoso articolate quelle dei giunchi, di altezza molto variabile a seconda della specie.

C’è inoltre nel nostro pseudogiunco una caratteristica speciale che sta tutta racchiusa nel nome scientifico Butomus umbellatus, e cioè la sua unicità di genere e di specie. Il genere Butomus è l’unico della famiglia delle Butomaceae presente in Italia. Analogamente, la specie umbellatus è l’unica del genere Butomus sviluppatasi da noi.  Questo carattere richiama una pianta di origini antichissime considerata un relitto preistorico e già trattata che è il Gingko biloba (foto 10) le cui origini risalgono al Permiano 299/250 milioni di anni fa. Il Cretaceo, periodo di origine del Butomus, è un po’ più recente, da 145 a 65 milioni di anni fa, ma comunque sempre preistorico, e l’unicità di tante entità si collega anche alla loro origine antica, per cui è stata loro richiesta un’infinità di adattamenti per arrivare fino ai giorni nostri, sopravvivendo alla scomparsa di tante altre specie o addirittura famiglie più o meno affini, per selezione naturale.

Ma c’è un fattore che ha indubbiamente facilitato questo processo di selezione/estinzione di tante specie viventi, e cioè l’uomo. In particolare nel passaggio da un’agricoltura antica, privata, ad un’agricoltura di tipo industriale, quindi alla cementificazione selvaggia e a tutte le cause indotte di scomparsa delle aree umide, che hanno comportato, tra l’altro, un uso sempre maggiore di diserbanti, anche a ridosso dei fossi o addirittura dentro, per eliminare tutto quanto possa costituire una concorrenza indesiderata (ben altro che infestanti), alle monocolture prodotte. A ciò si aggiunge la rimozione meccanica delle erbe dei fossi che si ispira anche ad una logica di pseudotutela ambientale che risulta assolutamente pervertita. Si pensa infatti che la pulizia dei fossi intesa come rimozione di tutto quanto vi abita dentro, costituisca una garanzia rispetto ai danni delle piene e secondari allagamenti. In realtà è vero esattamente il contrario, perché la rimozione della flora di fosso facilità lo scorrimento delle acque di piena che aumentando di velocità possono produrre effetti più devastanti. Il mantenimento della flora di sponda, che non significa lasciare nel letto un albero caduto in acqua che invece andrebbe tolto, non solo favorisce la biodiversità, consolida il terreno e contribuisce alla depurazione delle acque, ma ne rallenta la velocità in caso di piena, imbrigliandole e restituendole gradualmente. 

Ne consegue che grazie a queste logiche scriteriate di sfruttamento e di tutela ambientale, si son perse fior fior di essenze vegetali e lo stesso giunco fiorito è divenuta specie non solo rara, ma anche a rischio estinzione.

Sarebbe un vero peccato perdere anche questa essenza, che in maniera così stupefacente abbellisce le sponde dei nostri fossi ( foto 11/12/13) , quei pochi non ancora violentati dalla mano dell’uomo; e allora se non c’è riuscita la natura, nel corso di milioni di anni con i suoi eventi cataclismatici a farla sparire, ma ci riuscisse l’uomo, vuol dire che siamo arrivati a un livello di disprezzo tale del mondo in cui viviamo  per avidità di potere e di ricchezza, che ormai tutto possiamo distruggere, non tanto con un evento massivo unico, quanto con una concatenazione di eventi che, parafrasando la Bibbia, potrebbe trasformare il mondo stesso, anche in tempi brevi, in un Kibrot Taavà , cioè in uno sterminato sepolcro dell’ingordigia.

 

Stefano Araldi

 

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