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Criticare la politica e i politici è sparare sulla Croce rossa. Non fa più notizia, se si considera quanto succede a Gaza e dintorni.  Disapprovare i pubblici amministratori è una moda.  Stroncare i partiti è una banalità. Biasimare i cittadini per la disaffezione alle consultazioni elettorali è pane quotidiano.

Poi ci sono gli intellettuali.  Una categoria che non genera grandi discussioni nel pubblico dei bar, dei media, dei social. E nei politici non suscitano eccessivo entusiasmo, ma sono da comprendere.  Preoccupati di mantenere il culo sulla sedia, parlamentari e dirigenti di partito hanno poco tempo per il resto, soprattutto se il resto ha scarso appeal mediatico.

Ma chi sono gli intellettuali del nostro tempo?  E chi può definirsi tale? 

Antonio Gramsci li aveva divisi in due categorie, tradizionali e organici. Cattivi i primi.  Buoni i secondi.  Poi c’era l’intellettuale collettivo propulsore del partito rivoluzionario, grazie alla conquista dell’egemonia culturale all’interno della società civile. Come sia finito il Pci è noto. Invece dell’egemonia culturale è arrivata quella armocromista.

Se nel passato gli intellettuali fornivano idee alla politica perché le traducesse in azioni, oggi il loro ruolo è stato – in parte – eroso e ridimensionato da comunicatori e specialisti nelle varie discipline. E qualche volta da blogger e social media manager.  Senza dimenticare che l’intelligenza artificiale incombe e potrebbe sostituirli in un prossimo futuro.

Poi c’è la disputa sul dominio degli intellettuali di sinistra rispetto a quelli di destra, tema che in questo periodo ha trovato il suo quarto d’ora di ribalta. Argomento senza dubbio importante, che ha animato le discussioni anche nei salotti frequentati dagli indecisi se trascorrere il Natale a Cortina o San Moritz. Oppure alle Mauritius. 

Non ancora conclusa, la querelle-disamina su cultura di destra e di sinistra è per il pensionato da mille euro al mese poco più di una scorreggina. Una puttanata per il giovane precario. Un vaffanculo per il pendolare esasperato per i treni in ritardo o soppressi. Per il paziente incazzato per la visita specialistica tra tre mesi. 

Una categoria speciale è rappresentata dagli intellettuali di provincia. Si possono distinguere in tre categorie. 

Ci sono gli intellettuali veri, doc, bravi. Alcuni eccellenti.  Non finiscono sulle pagine dei giornali locali. Non ambiscono a diventare superstar. Viaggiano sotto traccia e quando si fanno notare sono una botta di speranza.

Ci sono gli intellettuali veri con ambizioni politiche. Se la tirano una cifra. Si sentono padreterni. Sgomitano per ottenere visibilità.  Se di sinistra, si fingono democratici, ma non condividono il loro sapere, lo esibiscono. Però non risparmiano tante chiacchiere generose sul lavoro dei muratori (Jacques Prévert). Aspirano a un riconoscimento sociale. Sono snob e fighetti. Brillanti e narcisi.  Hanno visto l’ultimo film alla moda. Citano il Sundance film festival e i fratelli Coen. I Cahiers du cinéma. I più raffinati buttano lì anche Sight & Sound. Poi hanno letto l’ultimo libro di tendenza. E se non l’hanno letto hanno intenzione di leggerlo. Spaccano le palle con conversazioni impegnate e inconcludenti. Puntano all’assessorato alla cultura, ma non disdegnano un posto in qualche prestigiosa fondazione pubblica.

Se di destra, considerano una caccola chi non ha appeso alla parete due lauree. Ma basta anche una laurea magistrale e un master per non finire tra i derelitti.  Slurpano il padrone del vapore con dovizia di complimenti e di aggettivazioni superlative in lode alle sue presunte e multisettoriali capacità. Se toppano vanno in analisi, ma sono soldi buttati.

Ci sono gli pseudo-intellettuali descritti, quasi sessant’anni fa, da Luciano Bianciardi nell’imperdibile Non leggete i libri, fateveli raccontareDiploma di liceo e laurea, posseggono un bagaglio culturale all’apparenza compatibile con lo status di intellettuale. S’illudono di essere dei   maître à penser, ma sono semplici bidoni colmi di nozioni. Di supponenza e prosopopea. Aspirano ad essere i consiglieri del principe o capi gabinetto.  Spesso raggiungono l’obiettivo, ma non sarebbero idonei neppure a gestire l’ufficio stampa di un omune. Sono i Georges Duroy di Mauppassant. Se la giocano con gli intellettuali veri con ambizioni politiche, ma quasi sempre perdono.  Diventano dei frustrati, ma non vanno in analisi. 

Ci sono gli pseudo-intellettuali. Le mosche cocchiere. Si montano la testa. Credono di avere in tasca la verità. Tuttologi, si piccano di conoscere l’intero scibile umano. Dissertano di sociologia politica, trovano soluzioni, dettano la linea anche se non richiesta. Si reputano degli Enrico Berlinguer e dei Giorgio Almirante in miniatura, in funzione del loro colore preferito. Svelti ad appropriarsi dei meriti altrui, puntano al posto, ai piani alti dei partiti e delle istituzioni, intesi per ascensori sociali. E questo spiega perché la politica e molte amministrazioni pubbliche sono ridotte ai minimi termini.

Infine, in provincia c’è una categoria speciale di intellettuali: colti e raffinati qualunquisti. Bravi nella critica, delegano l’azione agli altri.  Non si sporcano le mani. Fauna particolare e variegata, è composta da cittadini di ottima cultura, con professioni più che decorose o eccellenti, redditi dignitosi e status sociale medio-alto. Borghesi, timorati di Dio, ma anche un po’ razzisti.  Notevoli capacità dialettiche, concionano e scrivono in modo appropriato su tutto quello che non funziona e che li disturba.  Un po’ meno si interessano dei disservizi e dei problemi che affliggono i meno garantiti. Gli sfigati.  Vivono nella loro torre d’avorio e disdegnano la strada e i suoi schizzi di merda che potrebbero colpirli. Maestri di descrizioni apocalittiche sulle amministrazioni e gli amministratori locali e di j’accuse degni del rivoluzionario Fouquier, invitano gli altri a porre rimedio.  Va avanti tu che mi viene da ridere. Intonano un potente partiam, partiam, ma loro non si muovono. Fermi, statue di marmo.

Mancano i nomi dei rappresentati delle singole categorie. È vero. Ma sarebbe un giudizio imparziale, poco obiettivo.  E bisognerebbe dividerli tra Cremona, Crema e Casalmaggiore. Il lettore può decidere il proprio abbinamento. Un gioco natalizio. Come il risiko, la tombola, Il Monopoli. Ma senza l’impiccio di dadi, carte e fagioli. Buono per quattro chiacchere a tavola durante la cena o il pranzo.

Buon divertimento. Felice Natale.

 

Antonio Grassi 

 

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