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Le prime donne. Forse un libro del filone “politicamente corretto”? No, il sottotitolo Fra mito e storia non lascia spazio a questa interpretazione. Basta poi scorrere velocemente le poche pagine di introduzione, per confermare che si tratta di tutt’altro. Fin dalle prime righe veniamo smentiti dal giudizio tranchant di “una donna libera”: “Penso che non ci sia mito più irritante e falso di quello dell’«eterno femminino», che è stato inventato dagli uomini con la complicità delle donne e che descrive queste ultime come intuitive, affascinanti, sensibili”.

La citazione, tratta dalla raccolta di scritti inediti di Simone de Beauvoir intitolato La femminilità, una trappola (L’Orma, 2023), sgombra il campo dalla condiscendenza verso ogni genere di moda. Il punto di vista delle due amiche che hanno scritto il saggio è così ulteriormente chiarito: “Le donne, anche nel mondo odierno, stentano a veder riconosciuta la loro pari dignità e una sostanziale eguaglianza di diritti e doveri. Non si tratta di qualità octroyées, concesse, come se stessimo parlando di antichi statuti graziosamente elargiti da un sovrano, ma di uno stato di cose che si verifica alla nascita, perché esiste «per natura»”. 

Ciò non significa che donna e uomo siano identici, ma neppure un uomo è identico a un altro, né una donna a un’altra. Le due amiche nella vita e nella penna, o per meglio dire nella tastiera, ne sono un esempio lampante: l’una, Patrizia de Capua, cremasca, ex-insegnante non pentita, appassionata di filosofia, ha imparato ad amare i classici grazie a un professore del liceo Racchetti di Crema. L’altra, Delia Fergnani, appassionata di poesia, ha pubblicato una deliziosa Piccola guida per finire sotto un ponte. Racconti (Acquaviva, 2008), arricchito da acquerelli e liriche brevi da cui emerge una spiccata sensibilità verso la natura, gli animali, i cani in particolare, e la capacità di esprimerla in pochi versi, quasi epigrammi che ti stupiscono con un finale a sorpresa. Eppure dalla loro diversa personalità, accompagnata da complicità intellettuale, è nato questo libro che va in cerca di miti e storie.

Nella prima parte, dedicata al mito, vengono riscritte leggende relative ad alcuni personaggi femminili del paganesimo e del pensiero religioso ebraico-cristiano. La scelta, che ovviamente è del tutto arbitraria e tralascia altre figure delle più antiche narrazioni di tutti i popoli del mondo, è caduta innanzitutto su Pandora. Nota (oltre che per il film Avatar) per aver scoperchiato il vaso in cui erano stati racchiusi i doni che gli dei le avevano consegnato, Pandora è descritta da Esiodo come un “bel malanno”. Fin dall’inizio la donna si presenta con alcune caratteristiche che fanno impazzire gli uomini: fascino semi-magico, astuzia, sfrontatezza, ambiguità. Ma soprattutto curiosità. Pandora assomiglia ad alcune protagoniste delle fiabe che ricevono doni dalle fate, come nella Bella addormentata. Ma la sua vicenda la rende colpevole di aver lasciato che i mali contenuti nel vaso dilagassero ovunque, producendo infelicità e dolore. Non ci resta che piangere? No, ci resta la Speranza.

Dopo Pandora incontriamo Lilith, più antica della prima e ancor più misteriosa. Dalla luce dell’antica Grecia veniamo catapultati nel buio della notte demoniaca di miti provenienti dalla Mesopotamia. Enigmatica, seducente, agghiacciante, scortata da animali come il serpente, l’avvoltoio, il leone, il gufo o la civetta, Lilith viene creata da Dio nello stesso momento dell’uomo, in modo paritetico. E qui la narrazione si mescola con quella biblica, poiché pare che quel mito orientale fosse stato portato in Occidente dagli Ebrei dopo la cattività babilonese. Però Lilith, pur non essendo stata creata come compagna sottomessa all’uomo, vuole affermare la propria indipendenza, ma non viene cacciata dall’Eden: è lei che se ne va, divenendo un demone della notte. Lilith non ha voluto figli, perché avverte  che questi potrebbero limitare la sua libertà, e dunque si trasfigura in una sorta di maga malefica minacciosa verso i bambini, specie se maschi. La sua ribellione all’ordine costituito produce il sovvertimento della femminilità intesa come dolcezza, accoglienza ed empatia. In lei trionfano lussuria e incubo: duplicità che, in altro modo, abbiamo scoperto anche in Pandora.

Eva non può mancare. Dio, dopo aver fallito nella prima creazione, riprova a trarre la donna dalla costola di Adamo, e questa volta la coppia funziona. Adamo si adagia nella condizione di uomo al quale tutto è dovuto, e rischia di precipitare nell’abulia. Eva, pur non essendo uno spirito ribelle come Lilith, è comunque curiosa come Pandora, e finisce col cadere nella trappola seduttiva del serpente. In un immaginario (non più di tutto il resto del racconto) dialogo fra Adamo ed Eva, quest’ultima riesce a convincere il marito riluttante a disobbedire al divieto divino. Che c’è di più accattivante di un divieto? Solo ciò che è proibito può movimentare la noia di un’esistenza piena solo di bene e di beni, e il serpente lo sa, quando sfrutta la voglia trasgressiva della donna. Ancora una volta la colpevole sovversione dell’ordine produce male, dolore, morte.

Sophia è la donna più intellettuale di tutte. È complicata, è per definizione Sapienza e desiderio di sapere. È l’eroina della gnosi, dottrina dichiarata eretica fin dai primordi, e ancor oggi temutissima dall’ortodossia cristiano-cattolica. Nata dal Pleroma, divinità androgina non paragonabile al Dio ebraico-cristiano, Sophia si rende colpevole di un peccato originale che presenta tutti i caratteri della hybris degli eroi pagani: la tracotanza, ossia la volontà di essere come Dio. Non verrà punita con le pene inflitte agli eroi, ma produrrà una scissione insanabile fra sfera psichico-spirituale e fisico-materiale, gravida di mali. Il cristianesimo si allarma quando l’aspetto della corporeità viene negato o anche soltanto sottovalutato. Scrive Luigino Bruni in un articolo di “Avvenire”: “Gli gnostici non amavano la carne, la vivono come decadenza dello spirito (e, di conseguenza, non amavano l’eucarestia). Quindi non accettano un Logos che si fa carne e che, addirittura, soffre e muore veramente […] E un cristianesimo senza carne e senza incarnazione diventa altro, la storia diventa apparenza, fiction; il dolore non ha un senso vero e così invece di essere redento resta per sempre”. Non basta: “Ogni volta che nel cristianesimo abbiamo separato il corpo dall’anima e abbiamo combattuto il corpo come decadenza dello spirito, ci siamo allontanati dalla storia e dai poveri, la gnosi ha vinto, anche se non lo sapevamo. Inoltre, disprezzare il corpo in nome dello spirito è sempre stata una via maestra per ogni forma di abuso, fisico e spirituale, ieri ed oggi”. La condanna è definitiva: “La gente normale, il popolo, le mani e i piedi, il cuore e la carne, soprattutto i poveri, escono di scena, finiscono nelle tenebre, e non si vedono più. Ogni volta che una comunità cristiana cade in questa trappola, rivive la gnosi”. Commenta Patrizia de Capua: “L’intellettualismo ellenico non piace ai cristiani, che predicano l’amore come primo comandamento. Eppure l’essere umano è fatto sì di cuore, ma anche di mente, e nessuno dei due può fare a meno dell’altro”.

Nella seconda parte del libro, la storia, opera di Delia Fergnani, assistiamo a una sorta di rappresentazione teatrale. La scena è una lunga e solitaria strada in terra battuta dove una donna e una scimmia si vengono incontro,  intrecciando un dialogo che è una storia in senso biologico. Le protagoniste infatti rappresentano i due rami in cui si è diviso un originario ceppo comune. Non dunque un’evoluzione che ha fatto confluire un’antica specie animale in un’altra, ma una parentela rappresentata dalla condivisione di  uno stesso antenato, secondo una corretta interpretazione di Darwin. Nel luogo senza tempo dell’incontro, sembra di assistere all’incipit di “2001, Odissea nello spazio”: risentiamo le squillanti note di trombe intercalate e sottolineate da potenti colpi di timpano. È “Così parlò Zaratustra” di Richard  Strauss. Ma qui l’atmosfera è più rilassata: non compare alcun monolite, e la rappresentazione tocca con leggerezza ed eleganza alcune tappe dell’evoluzione. Nel dialogo c’è l’empatia tipicamente femminile, senza rivalità, ma con la curiosità di conoscersi a vicenda. Sono davvero imparentate, la scimmia e la donna: entrambe hanno dovuto vedersela con cambiamenti ambientali catastrofici e ingovernabili, trasformando se stesse nella lotta per la sopravvivenza. La scimmia, ad esempio, che prima viveva sugli alberi della foresta, si è vista sottrarre la visione dall’alto e l’albero stesso. Al posto della foresta era subentrato un deserto. Il suo sguardo, ora senza orizzonte, non riusciva più a spingersi lontano. Perciò ha dovuto forzare la schiena e rizzarsi sulle zampe, assumendo la postura eretta, altrimenti non sarebbe mai riuscita ad avvistare in tempo un predatore. Ha dovuto alzarsi per non morire. Ma anche la donna ha fatto le proprie conquiste: il fuoco, innanzitutto, le ha consentito di abbrustolire la carne che prima veniva divorata cruda. Di conseguenza la mandibola, costretta a masticare con forza, si sviluppava a scapito della fronte. Ora invece il cranio ha assunto una conformazione che ha favorito lo sviluppo del cervello. Con il cervello cresce anche l’anima o la mente, e con quella la coscienza di sé. Su quest’ultima si apre un discorso ambivalente, poiché quella conquista porta con sé, oltre alla gioia della vita, la consapevolezza del dolore e dell’assurdo. La scimmia ammette di non aver mai pensato a queste cose, né tanto meno all’eternità, in cui peraltro la stessa donna confessa di non credere.

Ma scimmia e donna condividono qualcosa di essenziale: la cura per la prole. Riguardo ai figli, la prima dà lezione alla seconda: “quando hanno imparato tutto ciò che avevo da insegnare, li ho staccati da me, voi invece è come se ve li portaste addosso tutta la vita”. La donna non può che convenire che “l’amore umano verso i propri figli sembra la neve perenne su certi monti”. Siamo lontani da donne tipo Lilith o Sophia. La maternità viene vista non più come legame che limita, ma come complemento della propria natura. Probabilmente anche questo aspetto varia a seconda della persona.

Ciò che affascina è la chiusa del dialogo, dove la donna invita la scimmia a lasciarsi abbracciare. Le due si riconoscono sorelle. Una plastica rappresentazione di quella “social catena” leopardiana che gli uomini non hanno ancora stretto? Forse, ma l’immagine non viene forzata verso ulteriori significati. Rimane così com’è: un gesto di compassione per un’umanità che ha realizzato conquiste stupefacenti, ma in fondo rimane preda, come l’animale, del timore della morte e dell’oblio. Il tutto senza alcun vittimismo, solo con la voglia di non farsi vicendevolmente male, anzi sorreggersi nella comune battaglia quotidiana per la sopravvivenza.

La lettura del libro è stata proposta in due classi quinte di un liceo milanese, e pare che gli studenti ne abbiano apprezzato i contenuti.

 

Chiara Sasso Laterza  

Le prime donne. Fra mito e storia, Milano, Farina editore, 2025           

                  

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