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Esplicito e diretto. Perentorio, Francesco Martelli non ha dubbi. «Nessuno si occupa o preoccupa più del lavoro». Poi precisa: «è oggetto trascurato non solo dalla politica, ma molto più in generale dalla cultura occidentale nel suo complesso» (vittorianozanolli.it, 4 gennaio). La considerazione lascia poco spazio all’ottimismo. Instilla un dubbio: la questione riguarda anche il sindacato? Interessarsi del lavoro e dei lavoratori è il lavoro di chi è delegato a far valere i diritti dei lavoratori. Se il sindacato fosse un’azienda, si direbbe che il lavoro è il suo core business. Se questa è la situazione, il sindacato può fregarsene del lavoro? 

Rispondere no è quasi un obbligo, ma resta la perplessità su modalità e impegno con i quali svolge il compito. Sui risultati ottenuti. Incertezza che alimenta la convinzione di un sindacato in crisi e ridimensionato rispetto al ruolo esercitato nel secolo scorso. Un ruolo allora tanto forte da indurre il governo Rumor a dimettersi. Eravamo nel 1970. Giurassico. L’anno della legge sul divorzio, di Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto. Della morte di Jimi Hendrix e Janis Joplin.

Erano i tempi di Luciano Lama, Pierre Carniti, Giorgio Benvenuto, Bruno Trentin, sostenitori convinti e determinati del sindacato soggetto politico. Oggi confuso e anemico, il sindacato è assai lontano dal peso politico raggiunto da questi monumenti del sindacalismo nazionale.  E il comportamento di Matteo Salvini, ministro dei Trasporti, che non perde occasione per incrociare il ferro con il sindacato del settore, rende palese questo abisso. 

Il famoso autunno caldo del 1969 con protagonista il sindacato è confinato nei libri di storia e i previsti autunni bollenti, che ciclicamente vengono annunciati, nei fatti si rivelano tiepide primavere. I datori di lavoro allora erano i padroni, oggi lo sono ancora, ma non vengono più chiamati così. Uno slogan assicurava: «Dureremo un minuto più dei padroni», ma era una fake. I padroni sono rimasti tali.  

È cambiata la classe operaia. Ha tolto la tuta blu e indossato il camice bianco.  Non sta al tornio, ma al computer. Va in pensione più tardi. Continua a non andare in paradiso. Resta all’inferno, ma con l’aria condizionata e la mensa. I suoi figli frequentano l’università e sperano di salire sull’ascensore sociale, ma non tutti ci riescono.  E tra quelli che la spuntano, pochi raggiungono i piani alti. I restanti si ritrovano operai evoluti. Frustrati e spesso incazzati, accusano il sindacato di non averli tutelati. 

Il mercato del lavoro si è fatto più frammentato. Le nuove tecnologie hanno imposto maestranze più formate. La classe operaia si è drasticamente ridotta.  Tutto questo, insieme ad altri fattori, ha indebolito il sindacato. Ha ridotto la sua forza contrattuale. Ne ha offuscato l’immagine. Il sindacato non è più Zorro e non più un eroe che si batte per i dipendenti contro i datori di lavoro. Non è ancora il sergente Garcia. È una via di mezzo. Ma non sempre in medio stat virtus. Spesso ci sta la mediocrità.

«Il sindacato non vi rappresenta più Cipputi. Trattiamo direttamente», propone il capo lacchè del padrone all’iconico metalmeccanico disegnato da Altan, che risponde: «Va bene. domani mattina alle sei dietro San Siro». La risposta beffarda e sarcastica, è la presa d’atto di una sconfitta. La constatazione amara di una storia conclusa.  Di un’epoca archiviata.

È l’attestato dell’involuzione del sindacato. È la perdita della sua funzione di rappresentanza.  Di ponte tra il lavoratore e la controparte. È la certificazione della crisi del corpo intermedio, che ha colpito anche i partiti. È l’obolo da versare alla società di oggi, digitale e social. 

Ma c’è anche il disincanto di Cipputi e di tutte le migliaia di suoi cloni.  «Qui cercano di fotterci di nuovo». «Speriamo sia l’ultima Binis. Non ho più il culo di una volta».

E non manca la pietra tombale su una stagione sindacale morta e sepolta.

«Si minaccia lo sciopero generale».

«Okei Stavazzi. Facciamogli un po’ vedere chi eravamo».

Esortazione e invito di un reduce a riaccendere il fuoco un tempo potente, ora ridotto ad una fiammella votiva davanti all’urna con le ceneri del passato. Memoria della quale il sindacato, al pari di Cipputi, va giustamente orgoglioso e fiero, ma la storia non si fa solo con i ricordi.  

Maurizio Landini, segretario generale Cgil, prova a trasformare la fiammella votiva in una fiamma olimpica. In una fiamma ricca di passione. In una fiamma che scaldi i cuori. Personaggio mediatico, Landini è spesso presente nei talk show. Quasi sempre è il toro da matare. Quasi sempre se la cava in modo egregio.  Quasi sempre al termine dei suoi interventi, viene da commentare, finalmente un sindacalista. Non un surrogato. E non importa se si condivide o meno il suo intervento. Gladiatore dell’arena mediatica, è tribuno e capopopolo. Buca il video. È riconosciuto anche dai frequentatori del bar sport.  Tanta roba nella società dell’immagine, ma non basta. 

Essere Massimo Decimo Meridio, ma con legionari, centurioni e tribuni non all’altezza del posto occupato, non si percorre molta strada. 

In nessun sindacato del nostro territorio s’intravede un leader degno di questo nome.  Tutte persone brave e volonterose, ma non dei fuoriclasse. Non protagonisti della vita e della politica provinciale. Abbondano degli efficienti travet. Svolgono il loro compito con diligenza e, giustappunto, secondo il minimo sindacale, con una predilezione per i servizi di patronato. Lavoro assai meritorio, ma meno impegnativo, meno conflittuale e più redditizio per l’organizzazione. 

La parola lotta è scomparsa dal loro linguaggio, sostituita da concertazione, che è un modo per accordarsi con la controparte da amiconi.

Fuori dal coro l’Unione sindacale di Base (Usb).  Organizzazione old style, non si fila gli amiconi e i padroni sono ancora i padroni.  E lo sciopero, per ora non è da rottamare. I Cipputi rimangono tali anche con il camice bianco e aria condizionata.

Le recenti vicende Pro Sus di Vescovato e Katoen Natie di Cremona sono un esempio di lotta sindacale vintage. Almeno nel nostro territorio. Tanto di cappello all’Usb. 

Il clima della pianura e l’inquinamento atmosferico record della nostra provincia, probabilmente incidono sull’attività sindacale e lo stum schis cremonese ci mette del suo. 

Siano questi o altri i fattori le cause della gnagnera sindacale e della poca visibilità dei generali al vertice di Cgil, Cisl e Uil locali, rimane il fatto che in provincia di Cremona il sindacalismo è slow. Quello rock è finito in soffitta. 

Fuori dalla cerchia degli addetti ai lavori, pochi conoscono i nomi degli attuali segretari provinciali di Cgil, Cisl e Uil.   

Nella memoria sono rimasti quelli del passato. Per citarne alcuni: Renzo Antoniazzi, Cesare Mainardi, Giorgio Toscani, per la Cgil cremonese. Felice Lopopolo, Cinzia Fontana, Marisa Fugazza, Luciano Noce, Francesco Taverna per quella cremasca.  Secondo Piazza, per la Cisl cremonese. Luciano Capetti e Sebastiano Guerini per quella cremasca.  Mario Penci e Mino Grossi della Uil cremonese.  Paolo Dossena e Amedeo Giuliani per quella cremasca.

Il sindacato si occupa ancora di lavoro e lavoratori. Ma in futuro non lontano dovrà preoccuparsi di se stesso. Con l’intelligenza artificiale alle porte delle aziende e pronta a entrare anche i sindacalisti rischiano di finire in cassa integrazione. 

«Uno di questi giorni sarai sostituito dai robot, Cipputi» dice il capo. «E lei cosa farà, verrà a rompermi i coglioni a casa» risponde Cipputi.

È il domani. È il progresso. È la tecnocrazia. È il mondo di Elon Musk.  È la società distopica dei replicanti. Di Blade runner. È l’obsolescenza delle preoccupazioni di Martelli. Purtroppo.

 

Antonio Grassi

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